Conosci il significato del nome Zlatan? Vuol dire “dorato”, dal termine slavo “zlato”, ossia “oro”. Un nome e un destino non casuali. Zlatan è al Cinema! Trova la tua sala qui
Di Nicholas David Altea
Non c’è padre che non pretenda il massimo per il proprio figlio. Šefik Ibrahimović è uno di quelli, malgrado sia imperfetto e con alcune mancanze. I genitori di Zlatan sono separati da quando lui aveva due anni, praticamente non ha ricordi vividi della famiglia unita. Šefik è un muratore e addetto alla manutenzione dei condomini, originario di Bijeljina, in Bosnia, mentre Jurka Gravić, la mamma, che di lavoro fa la donna delle pulizie, è di origini croate ed entrambi sono immigrati jugoslavi a Malmö, in Svezia.
Durante la settimana Ibra e la sorella vivevano con la mamma e a fine settimana alternati lo passavano col papà. Nella sua biografia lo definisce il “papà della domenica”, il genitore con cui fai le cose più divertenti: quello che ti porta a mangiare l’hamburger o il gelato e che ti regala l’ultimo paio di Nike alla moda. Arrivava con la sua Oper Kadett disastrata e si partiva. Il rapporto con la madre, invece, è rigido e marziale: “Se sono quel che sono è perché sono stato cresciuto da una donna forte, mia madre. Me le dava di santa ragione ogni volta che sbagliavo: ero sempre attivo, facevo casino, mangiavo tanto, non stavo mai fermo. Lei ha sempre lavorato, ci ha cresciuti da soli, doveva fare delle scelte e le ha sempre fatte per il nostro bene”.
Dopo alcuni problemi con la giustizia della mamma Jurka per ricettazione, Zlatan e la sorella Sanela dovettero trasferirsi dal padre. Così tutto quello che, a domeniche alternate era perfetto, diventa quotidianità ma non funziona assolutamente come si sarebbero immaginati. Il clima in appartamento è pesante e appena c’è la possibilità, sua sorella torna dalla mamma e lì vi rimarrà solo Zlatan.
Il frigorifero è sempre vuoto come le lattine di birra che il padre si scola agilmente addormentandosi ubriaco fradicio, poco dopo, in poltrona davanti alla tv. Non è un periodo affatto facile per Šefik, ancor meno quando le preoccupazioni aumentano con lo scoppio della guerra in Jugoslavia; gli amici e i parenti sono in pericolo, e nella peggiore delle ipotesi muoiono. Un padre decisamente imperfetto, dicevamo, capace di tornare a casa con un pacco enorme di figurine per il piccolo, perdersi a guardare con lui gli incontri di boxe ma anche non preoccuparsi di beni primari in quella casa disordinata e trascurata.
Guai a toccargli i figli, però. Nessuno può: tantomeno quando viene convocato a scuola dalla preside per le intemperanze del piccolo verso la maestra di sostegno che gli era stata assegnata. Lo vorrebbero trasferire in un’altra struttura adatta ai bambini “agitati” come lui, fanno capire. Šefik lo difende: “Mio figlio è bravo, è il migliore di questa scuola” ma appena escono dall’incontro tornerà il padre severo e burbero. Tra i due c’è il classico rapporto conflittuale padre-figlio fatto di liti, urla, incomprensioni, frasi non dette e pensieri ad alta voce. L’accigliato bosniaco non riuscirà a essere sempre presenza costante ma quando ci sarà, pretenderà sempre il massimo, anche sul campo da calcio.
Basta poco e i due ritrovano armonia quando assiste a una sua partita di allenamento e gli porta in regalo un paio nuovo di scarpe da calcio. Sono lampi di quiete tra due caratteri alquanto simili che alternano ostilità e complicità, come quando tornano a parlare amorevolmente:
“Devi ascoltare e non ascoltare. Quando urlano e dicono che sbagli, devi usarlo come benzina”.
Non può mancare un insegnamento da quel fondamentale incontro di pugilato tra Muhammad Ali e George Foreman con le parole del primo verso il secondo: “Ballerò, ballerò, ballerò”. E ci sono pochi dubbi: da qualcuno, Zlatan, l’avrà pur presa quella sicurezza mista ad arroganza quando il babbo affermerà con sprezzante fierezza a Nils-Åke, allenatore della primavera del Malmö, senza averlo mai visto prima d’ora: “Mio figlio è bravo, eh!”.
Racconta ancora lo stesso Zlatan: “Sono cresciuto con mio papà. Lui lavorava tanto per permetterci di vivere. Il nostro frigorifero non era mai pieno, non avevamo tanto da mangiare. Per esempio, quando andavamo a giocare i tornei giovanili in Germania con la squadra primavera del Malmö andava dovevo chiedere 3000 corone a mio papà. Allora lui cosa faceva? Mi lasciava questi soldi e non pagava l’affitto per un mese, e mi mandava per giocare questi tornei, perché lui faceva tutto quello che poteva e mi dava tutte le alternative che c’erano”.
Malgrado tutte le problematiche tipiche di una famiglia immigrata, con poche finanze, troppi grattacapi e tanti sforzi, a distanza di 30 anni lo svedese non colpevolizzerà nessuno perché sono sfortune e storture della vita che non puoi calcolare. Puoi solo raddrizzare il più possibile l’andamento della strada con la forza di volontà e con la stessa costanza dei cercatori d’oro che annaspano, scavano e grattano per raggiungere l’obiettivo: trovare il minerale raro e prezioso.