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Intervista
Ira Sachs
Ira Sachs: “Con Passages voglio raccontare il piacere e le sue contraddizioni”

Piacere, contraddizioni, amore, passione, ossessione: aspettando il suo nuovo film Passages, dal 17 agosto al Cinema, abbiamo intervistato il regista Ira Sachs.

Di Gianmaria Tammaro

Il cinema secondo Ira Sachs è una questione di sentimenti e desideri, è un intreccio di passione e ossessione. E soprattutto è il tentativo di ricreare, attraverso le immagini e le parole, il piacere. Quello che proviamo ogni giorno, certo: breve, intenso, elettrizzante. E quello che, poi, sogniamo di provare: proibito, travolgente, disturbante.

Passages – al cinema con Lucky Red e MUBI dal 17 agosto – è un film che riesce a tenere insieme queste cose e che scava, va a fondo e ribalta completamente, e più volte, il punto di vista del pubblico. Il protagonista, Tomas, è un regista. Sta lavorando alla sua nuova opera, e intanto si divide: ha un compagno, Martin, eppure desidera Agathe. Si ritrova così in una spirale discendente, nel profondo – e nella banalità, anche – dell’animo umano e delle sue contraddizioni. Ecco, “contraddizioni”: un concetto molto importante per Sachs.

Il cinema, dice, funziona quando non ignora le contraddizioni e in qualche modo riesce a esaltarle, senza estremizzarle, mostrandole per ciò che sono. Grazie alle interpretazioni di Franz Rogowski, Ben Whishaw (con il quale, anticipa Sachs, tornerà a lavorare per il suo prossimo film) e Adèle Exarchopoulos, Passages si carica di tensione e sensualità, di corpi, carne e sudore. E di ansimi e sospiri. È una storia ricca di erotismo, ma non per questo pornografica. Sachs conosce, e conosce bene, l’importanza del sesso. Lo usa come elemento narrativo e allo stesso tempo gli restituisce tutta la sua forza e dignità. Passages è uno specchio che ci mette di fronte a noi stessi.

Quando le è venuto in mente di girare questo film?
«Preferisce la storia lunga o quella breve?»

Scelga pure lei.
«Be’, è sempre interessante vedere come ci comportiamo nei confronti del passato e in che modo decidiamo di raccontarlo agli altri. Tornando alla sua domanda: volevo girare un film sul desiderio, su che cosa vuol dire provarlo e non poterlo assecondare. E volevo girare un film sull’amore e su quello che significa perderlo».

E poi?
«E poi ho visto Franz Rogowski in Happy End di Michael Haneke, e probabilmente è stato l’inizio di questo film».

In che senso?
«Sono stato colpito dalla sua interpretazione, dal modo in cui si muoveva, dal suo corpo, e ho voluto provare a dargli spazio, a inserirlo in un’altra storia».

Il film che il personaggio di Rogowski sta girando si chiama Passages, proprio come il suo film. Perché?
«Probabilmente è sbagliato definire questo film come autobiografico, perché non è così. Però stiamo parlando senza dubbio di un film a cui sono particolarmente attaccato e che ha un grande valore per me. Mi rivedo nella figura di Tomas, il personaggio di Franz; mi riconosco in un uomo che si comporta male».

Immagino non sia proprio facile ammetterlo.
«Sono disposto a mostrarmi al pubblico nella mia vulnerabilità, mettendo a nudo tutti quelli che sono i miei difetti e, allo stesso tempo, le mie passioni».

Passages è una storia di passione e ossessione, di piacere e gelosia. Di desiderio, come diceva anche lei, e perdita. Se dovesse scegliere un solo tema, quale sceglierebbe?

«Non credo di poter rispondere a questa domanda. Non voglio ridurre Passages a un unico tema. Non sarebbe corretto. Scegliere un tema o scegliere più temi significa provare a limitare, in qualche modo, le contraddizioni. E per me un film è fatto fondamentalmente di questo. Di contraddizioni. Però, sì, le darò qualcosa…».

Mi dica.
«Al centro della trama e dell’interazione tra i personaggi, c’è il piacere. In tutte le sue forme, dimensioni e derivazioni. In tutte le sue sfumature e assurdità. È questo quello che fa il cinema, dopotutto».

E cioè?
«Provare a ricreare il piacere. E Passages è il tentativo di mettere in scena il piacere, di restituire questo stesso piacere al pubblico».

Qual è la differenza tra passione e ossessione?
«Sono sicuramente collegate, ma credo che l’ossessione abbia a che fare con quella distanza che separa ciò che le persone vogliono da ciò che le persone hanno. La passione, invece, si muove in questo spazio».

Mi ha già detto come ha scoperto Franz e perché l’ha scelto per questo film. Che cosa mi dice del resto del cast?
«Paradossalmente ho trovato tutti guardando altri film, e attenzione: sono film in cui non sono assoluti protagonisti, in cui, come personaggi secondari o comprimari, danno il meglio di sé e riescono ad aggiungere qualcosa. Ho visto Adèle Exarchopoulos in un film francese…».

La vita di Adele?
«No, no. Non l’ho mai visto quello… No, mi riferivo a Sibyl di Justine Triet, che quest’anno ha vinto la Palma d’Oro».

E dove ha notato Ben Whishaw?
«In I’m not there. Non ho bisogno di molto per capire quando voglio collaborare con un interprete e per vedere le potenzialità che può avere lavorare insieme. Mi lascio travolgere dall’entusiasmo, proprio come fa uno spettatore, e poi parto da lì per costruire qualcosa di stabile e concreto».

La sua è più un’ossessione o una passione?
«Potendo scegliere solo tra queste due possibilità, direi ossessione».

Perché?
«Perché giro i miei film in una fase in cui sento di volere ardentemente qualcosa».

Torniamo alla definizione che mi ha dato poco fa.
«Sì, certo. Ma vede: si prova passione quando si possiede qualcosa, quando si sviluppa un rapporto teso ma definito. Fare un film, per me, vuol dire provare a creare qualcosa che di solito non hai abbastanza determinazione per creare».

Perché ha deciso di girare questo film in Francia, con personaggi che parlano sia in inglese che in francese?
«Passages rispecchia la mia stessa vita. Quindi non ci sono né un solo paese né un’unica lingua. Le persone che lavorano con me provengono da tutto il mondo. Per questo, è una realtà familiare. Ho scoperto Parigi quando avevo circa 20 anni. E da allora, appena posso, ci vado».

È come una seconda casa?
«Ho amicizie a Parigi. Ho avuto relazioni a Parigi. Ho pianto e fatto sesso a Parigi. È un posto in cui mi sento a mio agio, e in cui posso vivere una vita piena ed emozionante. È stato piuttosto semplice, per me, immaginare questi personaggi muoversi in questa città».

Secondo lei sta diventando sempre più difficile trovare storie così intime e sensuali al cinema?
«Assolutamente sì. Se ho deciso di girare Passages è stato anche per questo motivo. Perché volevo raccontare una storia che, come spettatore, volevo vedere. Ed è sempre più complicato trovare storie del genere. Soprattutto nel cinema americano. Passages è il mio film più personale».

Qual è il momento che preferisce del suo lavoro? Quel momento di cui non saprebbe fare a meno?
«Tutti gli aspetti sono importanti quando giri un film, e tutti, a modo loro, possono essere determinanti. Non credo che ce ne sia uno più o meno importante. Detto questo, per me è fondamentale essere attento».

In che senso?
«Devo concentrarmi su ogni cosa, anche sul più piccolo dettaglio. E devo fare attenzione a quello che mi dicono le persone che lavorano con me. Devo ascoltare, ecco».

Qual è stato l’ostacolo più grande sul set di Passages?
«Il Covid».

Ha influenzato, anche se di poco, la sua idea originale?
«Indubbiamente ci siamo dovuti adattare. Ma io e il resto della troupe vivevamo come in una bolla. Eravamo al sicuro. Dovevamo evitare i contatti con il mondo esterno».

I vari protocolli hanno reso più difficili le riprese delle scene di sesso?
«In quel caso, il problema, se di problema vogliamo parlare, non è mai stato il Covid. C’erano dei protocolli, come ha detto anche lei, e dovevamo seguirli. No, il punto è stato riuscire a costruire un rapporto di fiducia tra gli attori, e tra gli attori e me. Ho avuto la fortuna di lavorare con tre interpreti veramente coraggiosi».

Perché coraggiosi?
«Perché sono stati pronti a mettersi a nudo, in tutti i sensi. Hanno dato ogni cosa che avevano per raggiungere un’unione non solo fisica, ma anche mentale. Erano decisi a mettersi in gioco l’uno per l’altro. Quello di Passages è stato un set molto, molto disteso. E non le nascondo che ci siamo divertiti».

Questo, ha detto poco fa, è un film estremamente personale per lei. Di che cosa aveva paura durante le riprese?
«Di non essere in grado di fare un buon lavoro. Fin dal primo momento, però, ho creduto in questo progetto».

Provo a riformulare la domanda. Qual è la sua più grande paura come regista?
«In questo lavoro, ogni giorno di riprese può essere l’ultimo. Devi ricordatelo in continuazione. Se non riesci a creare qualcosa con una sua profondità, con una sua verità, sai che non avrai altre possibilità per riprovarci. Tutto deve succedere al momento giusto. E trovare questo equilibrio, questo bilanciamento tra necessità e aspirazioni, è una sfida».

E che cosa si prova mentre si affronta questa sfida?
«Senti una pressione enorme. Sei pronto a confrontarti con i tuoi stessi limiti per dare vita a qualcosa di significativo, di vero, di simile alla realtà. E bello. Sì. Deve essere anche bello».

Crede che un buon film possa fare la differenza per chi lo guarda?
«Credo che un buon film possa influenzare profondamente chi lo guarda; credo che possa avere un effetto sulle corde più nascoste delle persone. Io non voglio cambiare i miei spettatori».

E che cosa vuole, allora?
«Creare un rapporto genuino con loro. Condividere una certa intimità».

Se posso, perché ha deciso di diventare un regista?
«C’è una risposta pratica a questa domanda, ed è: ho iniziato a dirigere da giovane e non ho mai smesso; è semplicemente andata così, e non l’ho scelto. Non davvero. Poi c’è una risposta più profonda e articolata».

E qual è?
«Che ho trovato impossibile fare a meno del rapporto che si stringe ogni volta su un set, che ho capito di non potermi privare di quel legame creativo e produttivo, quello slancio che serve prima e durante il racconto di una storia. In questa dimensione mi sono sempre sentito a mio agio. Lavorare con altre persone mi ha permesso di esprimere idee e concetti che per me sono unici. La verità è che amo il cinema».

E come definirebbe questo amore?
«Appassionato e, come ci siamo già detti, ossessivo».

 

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