Si alza il vento di Hayao Miyazaki ti aspetta al Cinema, dal 24 al 30 agosto, come ultimo appuntamento della rassegna Un mondo di sogni animati. Con il suo approfondimento Gianmaria Tammaro ci racconta perché in questo film c’è tutto. Proprio come c’era tutto in 8 e mezzo di Federico Fellini.
Si alza il vento di Hayao Miyazaki è un film quasi felliniano, legato a doppio filo alla dimensione del sogno e alla ciclicità che a volte ha la vita. Si apre e si chiude con il protagonista che dorme. Miyazaki ci ha lavorato dopo aver scritto La collina dei papaveri, il secondo lungometraggio diretto da suo figlio Gorō, e dopo aver scartato la possibilità di fare un sequel di Ponyo sulla scogliera (così dice Toshio Suzuki, il produttore dello Studio Ghibli).
Ha voluto sperimentare e portare all’estremo la sua poetica – termine bruttissimo, lo sappiamo – e la sua visione. Ha manipolato gli elementi e l’animazione, e l’ha fatto con il chiaro obiettivo di raggiungere un picco non solo narrativo ma soprattutto artistico. Ha preso una storia che conosceva bene, di cui aveva già parlato in un manga, e l’ha piegata alle sue necessità. Prima indeciso, tentennante. E alla fine convinto, granitico nelle sue posizioni.
Jiro Horikoshi è un personaggio realmente esistito, ingegnere e figura di riferimento della rivoluzione tecnologica del Giappone tra la prima e la seconda guerra mondiale. Miyazaki l’ha usato come scusa. Come spunto per poter parlare del conflitto che, spesso, vive chi fa arte e crea. E quindi: il fine giustifica il mezzo oppure no? Costruire aerei, che sono sogni come dice Caproni nel film, è legittimo anche se poi vengono utilizzati in guerra, per portare morte e distruzione?
Come in 8 e mezzo di Federico Fellini, è evidente la presenza di un riferimento autobiografico. Jiro, in alcune sequenze, sembra Miyazaki; la sua passione per l’aviazione e la sua voglia di sperimentare e di muoversi tra gli estremi richiamano in modo quasi spudorato quelle del regista giapponese. Di più: se per Miyazaki è stata sua madre, qui è la compagna di Jiro, Nahoko, ad ammalarsi. E il rapporto con la malattia, con il senso costante di perdita e di morte, è uno dei temi principali, praticamente fondanti, di questo film.
Miyazaki non si nasconde, dice esattamente quello che vuole dire. Caproni, il progettista italiano, diventa una specie di Virgilio nel suo racconto e Jiro, che è sia protagonista che vittima degli eventi, si trasforma in un’estensione del pubblico e del suo sguardo. Quello che fa è quello che noi vediamo, ed è pure quello che impara per la prima volta. Quindi c’è una sovrapposizione tra oggetto raccontato e ricevente del racconto.
Si alza il vento è ambientato in un Giappone deciso a cambiare e ad abbracciare completamente la chiamata dell’evoluzione tecnologica. Miyazaki sfrutta determinati eventi, come il terribile terremoto del Kantō, per parlare di morte e distruzione e per anticipare il tema della bomba atomica e del nucleare. È un film completamente diverso rispetto agli altri che ha diretto. E allo stesso tempo riesce a conservare l’essenza e le aspirazioni artistiche di tutta la sua carriera.
Non c’è nessun elemento fantastico in questa storia. Ed è quasi una prima volta per Miyazaki – lo è sicuramente per il Miyazaki regista di cinema. La collina dei papaveri, per lui, è stato come una prova generale: un modo per testare il pubblico e per capire il suo effettivo interesse nei confronti di racconti di questo tipo, così reali e pregni di quotidianità.
Jiro non è un eroe, è un sognatore. Anzi, è un progettista: e lui, come dice Caproni, ha il compito di dare una forma ai sogni. Di plasmarli come si fa con l’argilla. Il design e la progettazione, così cari a Miyazaki, qui hanno un ruolo speciale, come in Porco Rosso: diverse sequenze si soffermano sulle minuzie dei progetti, sul gioco delle mani; sulla capacità dei singoli personaggi di sintetizzare le proprie idee in linee, numeri e calcoli.
Jiro si gonfia quando è alla scrivania. Gli occhi gli si allargano e i capelli si sollevano. Sembra brillare nei suoi abiti occidentali. Diventando qualcun altro: un uomo ubriaco di passione e di creatività, pronto a tutto, anche a spostare montagne intere, per realizzare quello che ha in mente. È sottile, magro, occhialuto. E la sua voce, che nella versione originale appartiene a Hideaki Anno, è lenta, quasi impastata e tuttavia chiara, decisa, animata da chissà quale incredibile intento.
Le scene più intime, quelle in cui Jiro è con Nahoko e stanno insieme, mano nella mano, stipati in una stanza mentre lui disegna e lei prova a dormire, sono avvolte da una delicatezza e una dolcezza unici. A tratti palpabili. È il modo che ha Miyazaki di tramutare qualunque cosa, anche la più piccola, in un’avventura.
Si alza il vento è la storia di Jiro, sì, ma pure – come abbiamo già detto – del Giappone, della sua industria, di una fetta di umanità. Nonostante i confini e le differenze, nonostante le guerre e le divisioni, Miyazaki trova una maniera per avvicinare tutti, per ribadire l’importanza vitale delle idee. Vivi, dice Nahoko a Jiro. Vivi, gli ripete. E lo dice dolcemente, quasi sussurrandolo, gli occhi grandi, le mani tese, e un mare di vento a separarli.
In un primo momento, racconta Suzuki, la battuta doveva essere un’altra, e cioè vieni. Miyazaki ha pensato di riscriverla per dare un altro tono e un’altra conclusione al suo film. L’ha fatto perché crede fortemente nella speranza e nel suo valore. Suo padre, che lavorava in una fabbrica di ricambi per aerei, è un’altra delle presenze costanti di questo film. Anche se, ed è un dettaglio interessante, il padre di Jiro non si vede mai: ci sono solo sua madre e sua sorella.
Si alza il vento è un film intenso, pieno di cose, suoni e voci – lo stesso terremoto ne ha una, ed è come un lamento; e prima ancora di scuotere le case e le strade, di sradicare alberi e abbattere pali della luce, parla. Forse in questo resiste, in minima parte, l’elemento fantastico. Chi lo sa: Miyazaki ha voluto dare una consistenza maggiore alla natura, intesa come vera e propria identità; e l’ha fatto. Senza cedere minimamente.
In molti hanno etichettato Si alza il vento come il suo “testamento artistico”. In realtà, è una sintesi precisa e affamata della sua carriera e della sua vita. E più che una fine, è come un nuovo inizio. In Si alza il vento c’è tutto. Proprio come c’era tutto in 8 e mezzo di Federico Fellini. Alla fine restano la responsabilità di vivere e i sogni. Quelli, in qualunque film di Miyazaki, non vanno mai via: resistono e si fanno cinema.
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