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Il gusto delle cose
Il Gusto delle Cose, quando l’arte parla d’amore

Sono molti i film in cui l’amore parla per non detti e attraverso l’atto artistico (inteso in senso ampio): l’ultimo è Il Gusto delle Cose.

Di Carlo Giuliano*

Si dice che chi venga pervaso dal sentimento d’amore e chi sia infuso di ispirazione artistica, provino sensazioni simili. Sicuramente, l’atto artistico è un atto d’amore: per noi stessi, per l’opera che andiamo a creare e primariamente per il destinatario di quell’opera. Questo è sicuramente vero ne Il Gusto delle Cose, il nuovo film di Trần Anh Hùng passato per il Festival di Cannes – dove ha vinto il premio alla Miglior Regia – scelto per rappresentare la Francia agli Oscar 2024 e nei cinema italiani dal 9 maggio.

La talentuosissima coppia di protagonisti, Benoît Magimel e Juliette Binoche, interpretano rispettivamente Dodin Bouffant ed Eugénie. Lui è uno chef di fama mondiale, lei la sua aiutante, di fatto sua pari. La loro storia d’amore e creazione artistica si interseca nell’anno 1885. Ma è una storia d’amore fatta di non detti, dove le parole non servono perché sono tutte espresse tramite i piatti che si cucinano a vicenda. A ogni proposta di matrimonio di Dodin, cui seguono gli inesorabili rifiuti di Eugénie, l’amore non viene meno. Semplicemente viene espresso in altra forma, tramite un piatto. Non sono cuochi, sono artisti; e attraverso l’essere artisti diventano anche amanti, senza bisogno di un contratto matrimoniale a suggellare la cosa.

Il Gusto delle Cose insiste moltissimo su questa associazione simbolica, soprattutto a livello registico: ogni alimento maneggiato e adagiato con cura sembra un quadro, e sembra un corpo che si vorrebbe accarezzare con la stessa delicatezza. Ma sono diversi i film in cui l’arte, intesa in senso molto ampio, diventa un linguaggio d’amore, laddove le parole o il contatto fisico vengono meno.

Edward mani di forbice (1990)

Il film di Tim Burton con protagonista Johnny Depp è un primo, perfetto esempio per rappresentare due concetti. Il primo, l’utilizzo dell’atto artistico per veicolare amore laddove, più che parlare, non si può toccare. Il secondo, che l’arte è un concetto molto vasto, che molte cose possono assumere un valore artistico. Spesso, la differenza la fa proprio quanto amore investiamo in quell’atto.

È il caso di Edward, questa sorta di Frankenstein lasciato incompleto dal suo creatore, con lunghe forbici taglienti al posto delle mani. Il che è ovviamente molto limitante per Edward, impossibilitato a sperimentare qualunque contatto fisico, soprattutto quando incontra Kim (Winona Ryder) e se ne innamora. A meno che…

A meno che quelle forbici non lo rendano il miglior giardiniere e poi parrucchiere sulla piazza, un vero artista nel campo della scultura intesa in senso ampio. La scena più rappresentativa in questo senso sarà infatti quella della scultura di ghiaccio, sotto cui Kim danza come in una pioggia di neve mentre Edward sta dando forma a un angelo.

Big Fish – Le storie di una vita incredibile (2003)

 Un altro film di Tim Burton, meno gotico di altri, stavolta con protagonista Ewan McGregor. E stavolta il mezzo artistico è ancor di più da intendere in senso lato. Sapete quando dicono: “È un artista nel raccontare storie”? Ecco, questo è il caso di Edward Bloom, un artista dello storytelling. 

Edward Bloom è uno che ha vissuto mille vite e le ha trasformate in diecimila racconti. Racconti in cui l’oggettività e l’accuratezza non sono per forza le forme più veritiere. Tutto questo sta a rappresentare il suo amore straripante per la vita e le avventure che gli ha riservato. 

Ma ciò che è più interessante è il rapporto col figlio Will. Sarà proprio l’ennesimo racconto fantasioso, che Edward insiste nel vendergli come vero, a portare infatti a una rottura fra i due. Ma sarà proprio attraverso quello storytelling che li aveva allontanati, che il rapporto fra padre e figlio ritroverà l’amore perduto. 

The Artist (2011)

Cinque volte Premio Oscar (fra cui Miglior Film) e innumerevoli altri riconoscimenti dopo, The Artist resta un punto di riferimento negli ultimi anni di film metacinematografici. Un po’ Viale del tramonto, un po’ lo stesso tema che sarà di Babylon, The Artist racconta della difficile fase di passaggio, a Hollywood, dal cinema muto al sonoro.

Difficile per gente come George Valentin (Jean Dujardin), divo del cinema muto ma del tutto inadeguato nella recitazione parlata. Qualcuno che non si riconosce nella sua stessa voce, surclassato dai nuovi divi, in particolare Peppy Miller (Bérénice Bejo).

Film muto per richiamare il muto stesso, The Artist è un divertissment in cui l’immagine di un amore senza parole è ovvia. Ma trovando un compromesso, Peppy e George inventeranno un nuovo genere: il musical. Facendo incontrare i propri linguaggi in un’unica creazione artistica, suggelleranno il loro amore.

La migliore offerta (2013)

In alcuni film più che in altri, parlare di amore risulta piuttosto difficile. Tossico, ingannevole piuttosto. Ma il film di Giuseppe Tornatore con Geoffrey Rush offre una sfumatura ancora diversa e altrettanto interessante in questo discorso.

Virgil Oldman è infatti un bravissimo quanto spregiudicato battitore d’aste, che acquisisce pezzi inestimabili a un valore stracciato. Virgil è un uomo a due facce: senza scrupoli, ma profondamente innamorato dell’arte e del restauro.

Qui, a essere assente è sia il contatto fisico che quello verbale, quando Virgil viene richiamato da una misteriosa donna di nome Claire per una valutazione. La curiosità di lui si trasforma in ossessione per lei, che non si mostra mai a causa di una presunta agorafobia, lasciandolo solo in una stanza piena di quadri. Quasi seducendolo, attraverso quei quadri.

Chi ha visto il film saprà che il tutto si trasformerà in un inganno, ma che nel finale Virgil tenterà il tutto per tutto, laddove qualunque parola fallirebbe… con un quadro. 

Cold War (2018)

Prima ancora di essere un film in cui l’arte fa da collante a una storia d’amore che non si incontra mai, Cold War è innanzitutto un film bellissimo. È bellissimo il suo bianco e nero, è bellissimo lo spaccato che rende dei primi anni di Guerra Fredda fra Polonia, Parigi e la Berlino divisa in due.

Nel caso del film di Paweł Pawlikowski, l’arte non è propriamente sostitutiva delle parole, ma è appunto quel collante, la coincidenza, attraverso cui i due protagonisti si incontrano, si amano, ma mai riescono a legarsi per sempre.

Da un lato Wiktor, pianista ed etnomusicologo. Dall’altro Zula, cantante dalla voce incredibile. Cold War è Storia del ‘900, è storia d’amore, è dramma, ma è anche la dimostrazione di come l’arte sia l’unica cosa in grado di far toccare due rette parallele che non si incontrano mai.

 

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.
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Il Film

1885. L’Impeccabile cuoca Eugénie lavora da oltre vent’anni per il famoso gastronomo Dodin. Il loro sodalizio dà vita a piatti, uno più delizioso dell’altro, che stupiscono anche gli chef più illustri del mondo. Con il passare del tempo, la pratica della cultura gastronomica e l’ammirazione reciproca si sono trasformate in una relazione sentimentale. Eugenie, però, è affezionata alla sua libertà…
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