Una tre giorni evento al cinema per raccontare “Volonté – L’uomo dai mille volti”: ne ripercorriamo la carriera in questi 10 film.
Gian Maria Volonté è stato uno dei più grandi attori che questo Paese abbia mai visto. Partiamo da questo presupposto. Se comparato al metodo americano, lui che fu quasi associato agli approcci interpretativi dell’Actor Studio, forse addirittura il più grande di tutti. Sicuramente, un artista che fece dell’impegno politico la ragione stessa del suo lavoro. Oggigiorno in alcuni ambienti questo legame viene visto quasi con biasimo, da chi chiede di tenere “la politica fuori dal cinema”. Succede molto più spesso di quanto si possa pensare, vi assicuro.
Ma con la sua carriera, soprattutto quella a cavallo degli Anni ’60 e ’70, Gian Maria Volonté ci ricorda che un cinema politico non fu soltanto una scelta impegnata, e a dirla tutta neanche una scelta; ma una necessità, per alcuni anni addirittura l’ultimo barlume di verità in un’Italia stragista, golpista e mai del tutto storicizzata. Ancora oggi cerchiamo di rimettere insieme i pezzi e ancora oggi quella lunga stagione di cinema politico italiano che ebbe Volonté come suo indiscusso protagonista, fa da faro. Di pochissimi attori al mondo si può dire questo, che siano stati il volto di un intero genere.
Riassumere in poche righe una carriera sconfinata come quella di Gian Maria Volonté è lavoro impossibile, ma per fortuna ci pensa un documentario presentato alla Mostra d’Arte Cinematografica nella sezione Venezia Classici e in arrivo nei cinema per una tre giorni evento. Volonté – L’uomo dai mille volti, scritto e diretto da Francesco Zippel, regala un archivio ricchissimo di testimonianze e raggiunge picchi di analisi tecnica non indifferente, per capire l’uomo e l’attore Volonté. Lo trovate al cinema il 23, 24 e 25 settembre e per l’occasione, abbiamo scelto di raccogliere la carriera di Volonté in dieci film, dieci capolavori da rivedere assolutamente e che troverete per larga parte citati e approfonditi nel documentario.
Altri mancheranno all’appello, almeno qui – L’armata Brancaleone di Mario Monicelli, Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi, Porte aperte di Gianni Amelio e molti altri – ma le colpevoli assenze sono diretta conseguenza del fatto che, con Volonté, andrebbero citati tutti. Per fortuna c’è un bellissimo documentario che non se ne perde uno, e vi aspetta al cinema.
È il 1962 e il cinema neorealista su un’Italia in macerie è al tramonto, la ricostruzione è conclusa e il boom avviato. Ma ancora qualche ventaglio di Neorealismo continua a soffiare e Le quattro giornate di Napoli può esserne esempio. Il film di Nanni Loy racconta l’omonima rivolta scoppiata dal 27 al 30 settembre 1943 a Napoli, una delle poche città riuscite a liberarsi dal nazifascismo prima dell’arrivo degli Alleati.
È un film dalla messa in scena totalmente improntata alla guerriglia urbana, un film di guerra pieno d’ambizione e di dramma, come pieni d’ambizioni erano un giovane Volonté e il personaggio che andava interpretando: il capitano Enzo Stimolo, militare e partigiano italiano inviato dai servizi segreti americani per guidare militarmente la rivolta. Quadrato e adrenalinico, a tratti spigoloso, Volonté incarna la perfetta immagine dell’eroe di guerra senza il quale la rivolta popolare s’infrangerebbe contro un muro di mitraglie.
Il modo in cui Sergio Leone lanciò lo spaghetti western e rivoluzionò tutto il genere western è cosa nota e non può essere oggetto di queste poche righe. È un fatto. Così come è un fatto che dal punto di vista attoriale, il percorso seguito da Leone sia stato doppiamente interessante. Un protagonista ricorrente, il magnifico straniero, il monco, il biondo: Clint Eastwood. E poi due attori diametralmente opposti presenti in due film ciascuno: Gian Maria Volonté, che era stato già Ramon Rojo in Per un pugno di dollari, e Lee Van Cleef, che sarebbe stato Sentenza ne Il buono, il brutto, il cattivo.
Il set che condivideranno è quello di mezzo, Per qualche dollaro in più, e per quanto verrebbe naturale citare la sua prima apparizione, è forse con il villain del secondo film che Volonté raggiunse i suoi limiti. Per quanto violento e fautore di battute memorabili – “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto” – Ramon Rojo è un personaggio relativamente “istituzionalizzato”, un cattivo inquadrabile insomma, rispetto alla follia di El Indio. In certe scene guardiamo in faccia Volonté e vediamo il male assoluto.
Gian Maria Volonté apre il suo decennio cinematografico più ricco, dal punto di vista del suo impegno politico, con un personaggio davvero esecrabile, quello di un anonimo dirigente della Pubblica Sicurezza che viene messo a capo dell’ufficio politico della Questura. Con Elio Petri aveva già lavorato nel ’67 su A ciascuno il suo, ma è Indagine a rendere indissolubile e duraturo il rapporto fra regista e attore. Viscido, lugubre, dal portamento vagamente mussoliniano durante i suoi incredibili monologhi ma incredibilmente servile quando si tratta di inchinarsi alla “legge”, la storia di questo personaggio si dipana fra gli abusi di potere sui “dissidenti” e il senso di colpa per aver ucciso la propria amante.
È un personaggio reso pazzo da questa insanabile contraddizione, aggravata dal fatto che nessuno lo perseguirà, perché lui è appunto “al di sopra di ogni sospetto”. Il tema dell’impunità fa da sfondo a un film dai toni distopici ma tutt’altro che distanti dal vero, dissezionando passaggio dopo passaggio la costruzione di uno Stato di Polizia che prepari alla dittatura golpista. In Italia ci siamo andati molto vicini: il 1970 è anche l’anno del Golpe Borghese, che proprio nelle forze armate e di polizia aveva individuato il suo potenziale braccio armato.
Il 1970 segna solo la prima, non l’ultima volta in cui Volonté lavora a un film di Petri e uno di Rosi – i due delfini del cinema politico italiano – nella stessa annata. Accadrà di nuovo nel ’72 (ci arriviamo). Ma al di là dei nomi, voi credete che un film sia “meno cinema politico” solo perché parla di Prima Guerra Mondiale e non di Anni di Piombo? Ricredetevi: Uomini contro lo si dovette girare in Jugoslavia, terra dei comunisti, perché in Italia incontrò fortissime resistenze. Liberamente ispirato al romanzo Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, Uomini contro è forse la migliore rappresentazione dell’insensatezza della guerra che si potesse rendere: dopo aver abbandonato una postazione, i generali italiani decidono vada ripresa a ogni costo, salvo poi, riconquistata al costo di innumerevoli vite, cederla di nuovo “per ragioni strategiche”.
La semplicità della trama la rende di una chiarezza cristallina e mai guerra fu più rappresentativa di quella di trincea e di logoramento, perché in più di ogni altra gli uomini furono ridotti a numeri sacrificabili per un calcolo di pochi chilometri guadagnati. Gian Maria Volonté interpreta ovviamente un tenente ormai disilluso e in netta contrapposizione con i suoi generali e Rosi dovette addirittura affrontare un processo per vilipendio all’esercito, tanto era risultato incisivo il messaggio di Uomini contro.
Non c’è Rosi e non c’è Petri nella carriera di Volonté, se non si cita poi il lavoro di sguardo al passato portato avanti da Volonté con un altro regista: Giuliano Montaldo. Uno sguardo al passato che, però, riscopriva nel rapporto con l’attualità tutto il suo valore politico. In un certo senso, nella storia di Sacco e Vanzetti ritroviamo un inquietante antesignano di quanto era successo, solo due anni prima dell’uscita del film, all’anarchico Giuseppe Pinelli. Montaldo ripesca dunque un fatto storico risalente al lontano 1927, quando il governo degli Stati Uniti processò e condannò a morte due anarchici italiani ingiustamente accusati di un attentato dinamitardo.
I due sono innocenti e il processo lo mette anche in luce, ma nell’inevitabile condanna c’è la volontà statunitense di mandare un segnale politico, contro gli emigrati e soprattutto contro anarchici e socialisti. Ci sono i prodromi di una recrudescenza conservatrice che durerà per tutto il successivo Proibizionismo. Ma soprattutto c’è la lezione tutta statunitense, messa in pratica anche in Italia sotto gli Anni di Piombo, di individuare nell’anarchismo e nella sinistra extraparlamentare i perfetti capri espiatori. Su questo concetto si basa tutta la coraggiosa difesa di Sacco e Vanzetti, portata avanti di fronte agli occhi della storia da alcuni dei migliori monologhi nella carriera di Gian Maria Volonté.
Quello di Ludovico Massa, detto Lulù, è considerato da molti il più grande ruolo di tutta la carriera di Gian Maria Volonté. Forse perché per l’ennesima volta cambia del tutto accento e provenienza geografica, ma soprattutto cambia posizione sociale: non è il dirigente, non il cattivo né il padrone come spesso gli capiterà d’interpretare, ma è la vittima, l’operaio di fabbrica, lo sfruttato. Ed è soprattutto la personificazione in carne e ossa della presa di coscienza di classe. Perché a inizio film Lulù non è affatto un personaggio positivo, è lo Stachanov per eccellenza, preso a modello dai padroni per i suoi instancabili ritmi di produzione.
Lui è un ignorante che vuole solo fatturare e fottere, fottere e fatturare (molto poco a dirla tutta). Che irride i discorsi degli studenti in protesta appena fuori dalla fabbrica, sostenendo di non sentirsi affatto un alienato. Ma quanto più se lo ripete, tanto più cresce nei suoi occhi la follia dell’alienazione proletaria; salvo poi, dopo un incidente sul lavoro, prendere finalmente coscienza della lotta operaia. Un momento questo, nel film, che dimostrò ancora una volta come Volonté fu il re dei monologhi nel cinema italiano.
Nello stesso anno in cui interpreta un operaio di fabbrica, Volonté veste i panni diametralmente opposti di un dirigente d’azienda. Ma un dirigente che, anche lui, letteralmente cadde vittima delle maglie imperialiste volute dall’America per il Vecchio Continente. Il film di Rosi, dal taglio fortemente documentaristico, ripercorre infatti uno dei casi più oscuri della Storia d’Italia: la morte di Enrico Mattei in un incidente aereo orchestrato, si pensa, dai potentati del petrolio statunitense in combutta coi servizi segreti e la mafia (questo, un legame proficuo che ricorre in tantissime pellicole di cinema politico italiano). Nominato commissario straordinario dell’Agip con il compito di liquidare l’ente nazionale e svenderlo ai grandi privati del petrolio, Enrico Mattei si convince della possibilità di fare concorrenza alle cosiddette Sette Sorelle anglo-statunitensi e rifonda la compagnia nella moderna ENI.
Il tentativo di prendere accordi con l’Unione Sovietica, il Medio Oriente e l’Africa, al fine di rendere l’Italia del tutto indipendente dal colonialismo petrolifero americano, lo trasformeranno in un pericolosissimo competitor. E come ben sappiamo, per quanto l’Italia ci abbia provato, nessuno fra coloro che guardarono a Est riuscì poi a sfuggire al grande piano atlantico. A molti costò la vita. Assieme con Petri per La classe operaia va in paradiso, Rosi otterrà per questo film il Gran Prix al 25esimo Festival di Cannes. Un ex aequo coraggiosamente politico e più unico che raro, che vide anche una menzione speciale a Volonté per la sua interpretazione in entrambi i film.
Tutto il cinema italiano è sempre stato improntato a questo: mostrare come per un lungo periodo del secolo scorso, l’Italia fu il centro, il Paese chiave su cui si giocarono le sorti di una lotta secolare fra agenda atlantica e internazionalizzazione bolscevica. Gran parte dei film di questa rassegna ci dicono proprio questo: che l’Italia non avrebbe mai potuto essere indipendente, che l’Italia non avrebbe mai potuto essere comunista. Ne andava della sopravvivenza del blocco atlantico. E la seconda cosa che il cinema politico ha sempre mostrato sono le inquietanti connessioni che questa agenda stipulò a fasi alterne con i servizi segreti, con la politica e con la mafia, al fine di raggiungere i suoi obiettivi. Era il perfetto diavolo a tre teste. Ma nel 1972, Marco Bellocchio ne aggiunge una quarta: l’informazione, mostrandone l’altra faccia, quella di un giornalismo pilotato e pretestuoso.
Qui Gian Maria Volonté interpreta il grigio direttore di un giornale. Anzi, letteralmente dello storico Il Giornale, dalle tradizioni fortemente di destra, per non dire peggio. Il film è liberamente ispirato a un fatto realmente accaduto, l’omicidio della studentessa Milena Sutter, per il quale venne accusato un innocente militante della sinistra extraparlamentare, al fine di strumentalizzare politicamente la vicenda in vista delle elezioni. La scena più illuminante di tutto il film, in cui vediamo quanto facile sia indirizzare l’opinione delle persone con intestazioni fuorvianti (oggi diremmo clickbait), è quella in cui Volonté rivede il titolo di un suo articolista. Da “Disperato gesto di un disoccupato, si brucia vivo padre di cinque figli” diventa “Drammatico suicidio di un immigrato”. E tutta la spiegazione che sta nel mezzo è talmente machiavellica da rendere il torbido improvvisamente trasparente.
Come detto, il cinema politico italiano ha sempre assunto molti volti per portare avanti la sua critica al potere, non sempre immediatamente riconducibili al suo periodo storico. E anzi, come detto, lo sguardo ad altre epoche per parlare del suo presente, è sempre stata la risposta di Giuliano Montaldo. Proprio per questo Gian Maria Volonté nei panni dell’eretico Giordano Bruno assume esattamente lo stesso significato politico di un Lulù, operaio metallurgico ferito dall’alienazione. Perché con le loro teorie visionarie, eretici come Giordano Bruno e Galileo Galiei furono il contraltare seicentesco di quanto pericoloso possa essere, per il potere, qualcuno che ne metta in discussione l’autorità morale e culturale, proponendo una visione nuova.
Con la sua teoria dei mondi infiniti, Giordano Bruno promuove di fatto una versione comunista, orizzontale e democratica dell’universo. E questo la Chiesa, sede del potere politico di quegli anni, non può accettarlo. Ma a differenza dello scienziato Galileo, il monaco Giordano Bruno non abiurerà, e per questo verrà bruciato sul rogo il 17 febbraio del 1600. Gian Maria Volonté mette in scena un Giordano Bruno estremamente moderno proprio per farlo risuonare nell’attualità, regalando una delle interpretazioni più drammatiche di tutta la sua carriera. E Giordano Bruno è un film violento come la fine che gli fecero fare.
Siamo arrivati alla fine di questa rassegna e per quanto Volonté avrebbe portato avanti ancora a lungo la sua carriera, mai spogliandola del suo valore politico, non si poteva che chiuderla con Todo Modo di Elio Petri, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia. Perché in Todo Modo viene spesso individuato l’ultimo fiato esalato dal cinema politico italiano, e nel ’76 la sua data di morte. Non certamente una morte figlia di decadenza, tutt’altro; bramata invece, infine ottenuta, a dimostrazione di quanto quel cinema risultasse pericoloso agli occhi del potere. In questo, Todo Modo è la perfetta rappresentazione dell’ultima evoluzione cui si era costretto, suo malgrado, il cinema politico italiano, che abbandonato l’approccio documentaristico dei primi film, in cui venivano fatti nomi e cognomi, dovette rifugiarsi nell’allegoria, nel grottesco, nel simbolismo e negli alter ego per portare avanti le sue denunce.
Il Presidente qui interpretato da Gian Maria Volonté è infatti, chiaramente, Aldo Moro; e l’epidemia che costringe il suo Partito a rifugiarsi nell’eremo di Zafer sono un chiaro riferimento alla Democrazia Cristiana e ai suoi legami con lo Stragismo di Stato. Todo Modo è un film agghiacciante, alludente e blasfemo, in cui anche “il Migliore della DC” viene rappresentato come un ambiguo vampiro che sapeva troppo. E che, per questo, dovrà morire. Il film venne ritirato dalla censura, quasi tutte le pellicole conservate a Cinecittà bruciarono in un misterioso incendio e la morte profetizzata di Moro solo due anni dopo farà sparire le copie superstiti per quasi quarant’anni. Un epitaffio funereo che i successivi registi politici italiani fecero molta fatica ad aggirare.
Ci sarebbe da parlare ancora a lungo di questa incredibile stagione di cinema italiano, che rende ancora oggi Gian Maria Volonté uno degli attori più importanti e fondamentali della nostra storia repubblicana. Ma a continuare a parlarne, non ci fermeremmo più. A Volonté – L’uomo dai mille volti, al cinema il 23-24-25 settembre, il compito di farlo.