Hayao Miyazaki e l’Airone è un viaggio fondamentale per capire il suo cinema, il suo ultimo film e il suo rapporto con lo Studio Ghibli.
Presentato allo scorso Festival di Cannes e più recentemente Lucca Comics & Games, arriva finalmente nelle sale italiane Hayao Miyazaki e l’Airone. Il documentario è distribuito da Lucky Red per una tre giorni evento il 25-26-27 novembre, ed è un appuntamento fondamentale per chiunque in cui si nasconda un appassionato del suo cinema. E anche se non lo foste così tanto da convincervi a vedere un dietro le quinte del lavoro svolto presso lo Studio Ghibli, vi scoprirete ad amarlo più di prima proprio dopo aver visto questa rara perla di documentario.
Perché Hayao Miyazaki e l’Airone, contenente riprese e suggestioni raccolte in quasi dieci anni dal regista Kaku Arakawa, è un’opera magna per capire e vedere tante cose che (forse) non vi era mai capitato di mettere sotto una certa luce. È innanzitutto un pedinamento quotidiano di Hayao Miyazaki nei luoghi più intimi del suo lavoro, ma anche della sua stessa mente. È un amalgama al contempo esilarante e commovente, che restituisce tutto il peso della corona ma anche l’autoironia con cui viene sobbarcato. Al livello più universale, è il riassunto di cosa significhi mettere su un’opera d’ingegno, di tutto quello sforzo che in due ore di film noi non vediamo, ma che c’è ed è doppio soprattutto per l’animazione, soprattutto per quella ancora disegnata a mano, come Miyazaki continua a fare.
Hayao Miyazaki e l’Airone sono tutti i 10 anni e oltre 3000 giorni che ci sono voluti a pensare, immaginare, poi disegnare e animare quell’opera omnia che è stata Il Ragazzo e l’Airone, premiata agli ultimi Oscar come Miglior Film d’Animazione. Un’opera di chiara matrice autobiografica per Miyazaki, che proprio per la sua complessità però, per il suo ermetismo e la sua inafferrabilità, è rimasta oscura a molti. Ecco, questo documentario sarà anche la più illuminante spiegazione di tutte le metafore celate dietro quello che, un domani, potrebbe rimanere come il capolavoro più conclusivo e omnicomprensivo di Miyazaki. Perché lì dentro c’è la sua vita, ma anche quella di tutti coloro che lo accompagnarono: una metafora dello Studio Ghibli.
Toshio Suzuki è stato uno dei tre fondatori dello Studio Ghibli nel 1985 e tutt’oggi incarna la sua mente produttiva. Fin dal 1984 ha facilitato Miyazaki nella produzione di Nausicaä della Valle del vento, grazie al cui successo fu possibile fondare lo studio. Miyazaki ha sempre detto di lui: “Non fosse stato per il Signor Suzuki, non ci sarebbe uno Studio Ghibli”. Dal 1991 è stato il principale produttore di tutti i film di Isao Takahata e di Miyazaki, fino ad arrivare a Il Ragazzo e l’Airone.
Potreste dunque pensare a un rapporto fraterno, fra Miyazaki e Suzuki. In parte lo è, ma a modo tutto loro, formale e al contempo sarcastico. Nel documentario, i due si danno del lei, ma si prendono anche in giro a vicenda: Suzuki chiama Miyazaki “un gran bugiardo” e lui per tutta risposta gli ricorda la propria superiorità intellettuale, come la mente e il portafogli che si ricordano i loro rispettivi ruoli a vicenda.
Questo particolarissimo rapporto di amore fraterno, come solo due fratelli saprebbero punzecchiarsi a vicenda, è rappresentato metaforicamente nel rapporto fra Mahito, protagonista de Il Ragazzo e l’Airone, e quell’airone cenerino che lo accompagna nel suo viaggio dantesco: fastidioso, gracchiante, come un uccellaccio del malaugurio che gli ricorda le scadenze ma, quasi controvoglia, lo accompagna e sostiene invece nel suo viaggio produttivo nei meandri della propria mente, come un moderno Petrarca per Dante.
Nel finale de Il Ragazzo e l’Airone conosciamo finalmente quella figura mitologica che sorregge tutto il mondo dell’aldilà attraversato da Mahito: il Prozio. Questa figura è il chiaro specchio di Isao Takahata, terzo fondatore della Ghibli assieme a Miyazaki e Suzuki e autore di alcuni dei suoi più grandi capolavori (che proprio Lucky Red ha riportato al cinema quest’estate in una nuova edizione di Un mondo di sogni animati). Come con Suzuki, anche il rapporto fra Miyazaki e Takahata era estremamente complesso, quasi contraddittorio, ma in modo del tutto diverso.
La fortuna maggiore, nel grande pubblico, l’ha avuta Miyazaki; ma proprio lui si è sempre sentito quasi come un ragazzino, se messo a confronto di quel grande e saggio maestro che considerava Takahata. I frutti di questo rapporto di amore-odio, di amicizia mista a competizione e rivalità, sono esplicitati e resi evidenti da Miyazaki nel suo discorso al funerale di Takahata, estratto commovente che ritroverete nel documentario: “Non eravamo mai soddisfatti del nostro lavoro. Volevamo andare oltre e più a fondo, volevamo lavorare per qualcosa di cui potessimo sentirci veramente fieri”. Una rivalità che diventa nuovo sprono.
Ma quando si sono passati i 70 anni e la lavorazione di un solo film ne dura 10, la possibilità che qualcuno non ne veda la fine è dietro l’angolo. Takahata muore infatti nel 2018, quando la lavorazione de Il Ragazzo e l’Airone è già piuttosto avanzata, ma ecco che il film cambia e nasce il Prozio (Takahata), un demiurgo che invita Mahito (Miyazaki) a prendere il testimone e continuare la sua opera, tenendo in piedi anche dopo la sua morte quel grande mondo dei sogni che altro non è che lo Studio Ghibli stesso. Alla luce di questo, l’incapacità di Mahito di raccogliere la sfida sembra quella di Miyazaki nel sentirsi pari al maestro. Ma il rifiuto non suona come rinunciatario, quanto piuttosto l’epitaffio commosso di un uomo che non sente di poter (o voler) continuare quell’opera senza l’altro.
Takahata non è stato l’unico che Miyazaki ha dovuto salutare nel corso della lavorazione de Il Ragazzo e l’Airone. Il documentario lo rappresenta molto bene: nell’arco di dieci anni Miyazaki invecchia, la sua fatica è palpabile; nel frattempo, gli amici e collaboratori di una vita dipartono uno dopo l’altro. Hayao Miyazaki e l’Airone è pieno di funerali e, preso in coppia con Il Ragazzo e l’Airone, è di fatto un canto del cigno per tutta la vecchia guardia dello Studio Ghibli. Non a caso, uno dei temi portanti del film Premio Oscar è proprio l’elaborazione del lutto; è un po’ tutto il centro del film e del viaggio.
Quindi non solo Takahata, ma prima di lui anche Michiyo Yasuda, la storica colorist e colonna portante dello Studio Ghibli scomparsa nel 2016. Se è vero che Miyazaki sostiene di aver realizzato il suo ultimo film perché Takahata non aveva dato credito all’annuncio del suo ritiro nel 2013 – “Ho realizzato Il Ragazzo e l’Airone perché Isao si è arrabbiato” – è altrettanto vero che la prima a dargli l’idea fu proprio Michiyo Yasuda. Lei più di tutti sapeva che Miyazaki avrebbe continuato a fare cinema.
E infatti Miyazaki tiene a mente le parole di Michiyo e se le appunta su un foglietto, che terrà appeso sopra quella scrivania su cui rimarrà ricurvo per quasi dieci anni, come un monito e uno sprono nei momenti più bui. E proprio a lei Miyazaki dedica il personaggio di Kiriko ne Il Ragazzo e l’Airone, la prima amica di Mahito in un viaggio costellato di trapassi. Lei è la forza che gli infonde coraggio, proprio come una colorist è colei che dà colore anche ai momenti più grigi, e tutta la sua forza è quella della dolce Michiyo, che ritroverete nel documentario come in una capsula del tempo.
Come si poteva chiudere se non con lui, con il protagonista Mahito, chiaro alter ego di Miyazaki stesso. In lui non converge però solo l’Hayao regista, che si sente ancora un ragazzo che ha ancora tutto da imparare, che ha molte domande e poche risposte, se non quelle che ha da offrirgli chi è arrivato dall’altra parte del viaggio, i più saggi alla fine dell’arcobaleno. In lui, appunto, non c’è solo questo, né Il Ragazzo e l’Airone è una sola metafora dello Studio Ghibli.
Il Ragazzo e l’Airone è il film più autobiografico di Hayao Miyazaki perché in esso il regista torna all’uomo, alla sua infanzia, alla guerra e ai suoi genitori, a tutte le ossessioni e i ricordi che da sempre ha riposto nel suo cinema. Torna infatti alla malattia e al lutto materno, della sua vera madre Yoshiko, scomparsa che lui era già grande, ma della cui mancanza soffrirà per tutta la vita e racconterà anche nel suo cinema precedente, su tutti Totoro.
Torna al papà, Katsuji, ingegnere aeronautico e proprietario di un’azienda che sotto la Seconda Guerra Mondiale produceva pezzi per gli aeromobili giapponesi. Proprio quella per il volo e l’aviazione rimane infatti una delle più grandi ossessioni per Miyazaki, affrontata in film come Porco rosso, Si alza il vento e ora anche Il Ragazzo e l’Airone. Lo stesso Studio Ghibli prende il nome da un aeromobile italiano della prima metà del Novecento.
Visti in coppia, Il Ragazzo e l’Airone e il documentario Hayao Miyazaki e l’Airone non solo altro che questo: l’atto finale – forse, con Miyazaki non si può mai sapere – con cui un creatore di mondi ormai alla fine del suo viaggio ha creato un ultimo mondo, il suo personale aldilà in cui far rivivere i suoi cari, nella vita e nel lavoro, per rincontrarli tutti un domani. Un luogo dopo lo Studio Ghibli, in cui tornare a stare tutti insieme.
Tutto questo, e molto di più, è quanto troverete in Hayao Miyazaki e l’Airone, al cinema il 25-26-27 novembre. Un viaggio nella vita e nel lavoro, nel passato e nel futuro, nella mente e nei sogni di quell’uomo inestimabile che è Hayao Miyazaki.