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5 motivi per vedere In the Mood for Love al cinema (in 4K)

In the Mood for Love di Wong Kar-wai torna al cinema restaurato in 4K per il suo 25esimo anniversario: ecco perché è un capolavoro.

Di Carlo Giuliano*

Più di qualcuno l’ha definito il più grande film d’amore nella storia del cinema. Nel 2016, la BBC lo inseriva fra i primi tre posti dei 100 migliori film usciti dal 2000, secondo un consesso internazionale di 177 critici. Proprio lui, In the Mood for Love di Wong Kar-wai, che usciva giustappunto allo scoccare del nuovo millennio, esattamente 25 anni fa. E anche se non vi trovate esattamente in mood d’amore, o siete fra coloro che pensano che l’amore sia solo quello che si consuma, o quantomeno si realizza, accetterete almeno che si tratti del più grande film romantico nella storia del cinema. 

Per chi non lo conoscesse già, narra di Chow Mo-Wan (Tony Leung Chiu-Wai) e Su Li-Zhen (Maggie Cheung), due esuli di Shangai nella Hong Kong del 1962. Lui giornalista, lei segretaria per una ditta di import-export, si trasferiscono assieme ai rispettivi coniugi in uno stesso palazzo, e nello stesso giorno, in due appartamenti attigui. Ben presto, quasi per coincidenza, scopriranno che i coniugi hanno una relazione fra loro e nelle lunghe assenze e nella solitudine vissuta alla distanza di una parete, quel tradimento comune li unirà, all’inizio timidamente, ma ben presto trasformandosi in un sentimento d’amore. 

Eppure, senza fare spoiler, In the Mood for Love resta il più grande esempio cinematografico di un amore che non avrebbe nessun motivo per negarsi, e tuttavia non arriva mai a “compimento”. Chow e Su si ameranno a distanza, e voi li amerete a vostra volta quando li ritroverete su schermo il 17-18-19 febbraio, una tre giorni evento per festeggiare i 25 anni dall’uscita del film e dargli nuova vita in questa edizione restaurata in 4K. Basterebbe già solo questo a farvi correre al cinema, ma noi abbiamo comunque voluto mettere insieme 5 motivi che vi convinceranno del tutto. 

Ambientazioni e costumi

Come detto, siamo in una comunità di cinesi in esilio nella Hong Kong degli Anni ’60. E qui la prima domanda: cosa succedeva a Hong Kong negli anni in cui negli Stati Uniti si sparava a Kennedy e il mondo era in preda al terrore della prospettiva di una guerra nucleare con l’Unione Sovietica? Che aspetto aveva l’Oriente – ma un Oriente estremamente occidentalizzato – di quegli anni? Nella domanda c’è già parte della risposta: Hong Kong, protettorato britannico dalla metà dell’800, si trova in una fase di riformismo nei costumi e nel governo. Vive in un certo senso una decolonizzazione “gentile”, con la Cina che spinge per la riannessione e l’ormai morente Impero Coloniale Inglese che risponde con un’apertura alla popolazione nell’autogoverno. Hong Kong 1960 è dunque una dimensione di laboratorio politico e soprattutto culturale unica nel suo genere, e questo si vede fin dalle macchine, gli arredamenti e i costumi di scena di Su e Chow. 

Lui sembra uscito da una puntata di Mad Men, la famosa serie sui pubblicitari di New York; lei indossa abiti floreali che uniscono la tradizione orientale all’esaltazione occidentale delle forme. Anche la scelta del taglio e dei colori non è casuale, ma piuttosto contrapposta: da un lato la rigidità dei tailleur a collo alto, dall’altro il calore dei motivi. È la perfetta rappresentazione del dissidio interiore di Su. Lei è la fonte pura di desiderio e Wong Kar-wai stesso disse in un’intervista, parlando del film: “Diventa una sfilata di moda” – nel senso buono, ché oggi sembra diventato un problema. Ma a ogni tentativo di avvicinamento da parte di Chow segue un’improvvisa reazione di allontanamento fra i due. Quel reciproco mettere distanza che è poi racchiuso in ogni passaggio del film: la distanza dalla propria terra, dai propri coniugi, dai propri sentimenti e da quell’elemento del possibile, di un futuro cui non v’è certezza, che l’amore sa rendere solo ancora più incerto.

La regia di Wong Kar-wai

Certi film sono talmente belli a vedersi da non portare nemmeno a chiedersi perché “appaiano così”, le scelte di regia e composizione dell’immagine che vi sono dietro. Ma Wong Kar-wai non lascia mai niente a caso. Tutto, nel suo processo narrativo di allontanamento, esclusione e rimozione, si ritrova anche nelle immagini di In the Mood for Love. Innanzitutto – e questo sembrerà un paradosso a chi abbia provato emozioni fra le più potenti di fronte a questo film – Wong Kar-wai mette una distanza non solo fra i protagonisti, ma anche fra lo spettatore e il film stesso. Le strette sui dettagli ci danno l’impressione di star spiando i protagonisti, di essere con loro dentro alla loro storia, ma al contempo mettono in luce l’artificio del mezzo, ci ricordano che siamo fuori dalla film e solo grazie a questo possiamo spiarne dettagli che è, appunto, il mezzo cinema a farci notare. C’è uno schermo, fra noi e loro. C’è una distanza, eppure non ci siamo mai innamorati tanto di una coppia cinematografica: è questo tutto il senso di In the Mood for Love.

E poi ci sono spesso delle porte, fra noi e loro: porte che si chiudono, tagliandoci fuori come loro sono tagliati fuori dalle vite dei coniugi fedifraghi. Infine il famosissimo effetto ralenti, cosparso in ogni momento del film, che sì crea una sospensione ma al contempo si interpone come elemento tecnico surreale: di nuovo, ci ricorda che stiamo guardando un film. Come ce lo ricordano la fotografia acida e ipersatura, assolutamente irreale, voluta dai direttori della fotografia Christopher Doyle e Mark Lee. Ogni dettaglio di rosso è accentuato, e il senso è proprio ricordare la magia del cinema, portare la bellezza oltre al punto in cui la realtà si ferma: mai rossetti furono rossi, nella nostra realtà, come lo sono quelli di In the Mood for Love. Infine operazione assolutamente sperimentale venne portata avanti nel montaggio, rimuovendo scena dopo scena, tagliando baci che erano stati girati, creando appunto un processo di rimozione, come funziona col processo di memoria e ricordo cui il finale del film fa evidente riferimento.

La colonna sonora

Per parlare di In the Mood for Love si usa spesso l’aggettivo “danzante”, e questo è senz’altro vero ma non dipende solo dal famoso effetto a rallentatore. L’eterogenea colonna sonora e il modo in cui ritorna, e si ripete, e si riavvolge nel film, ha sicuramente un grande ruolo in questo. Una colonna sonora che univa il jazz e il walzer a brani dalle tonalità più elettroniche, che rimandano alla fotografia elettrica e “drogata”, ma lanciano altresì uno sguardo al futuro e a quella modernità alle porte, nella Hong Kong 1960. Il principale contributo si deve al compositore Michael Galasso, ma due brani in particolare spiccano e si rincorrono per tutto il corso del film: Quizas, Quizas, Quizas (Perhaps, Perhaps, Perhaps) di Nat King Cole e Yumeji’s Theme di Shigeru Umebayashi. Di nuovo, la dualità. 

La dualità delle psicologie dei due personaggi, apparentemente diversi e distanti ma al contempo profondamente simili, come simili sono le sonorità di questi brani. Il primo, figlio di uno dei più grandi jazzisti statunitensi che qui però canta in spagnolo. Il secondo, un walzer giapponese. Messi insieme e al loro stesso interno, due brani che racchiudono la dimensione cosmopolita di Hong Kong, il suo essere il crocevia di due mondi lontani, Est e Ovest. Due brani che rimandano a immagini di terre e lidi lontani; di luoghi geografici (ed emotivi) sconosciuti e pericolosi, imprevedibili; di una fuga d’amore desiderata e mai intrapresa. E due brani che ovviamente esprimono perfettamente la dimensione di segretezza e pettegolezzo che circonda tutto il film. Una storia vissuta in punta di piedi in cui, come vuole la danza, a ogni avvicinamento deve seguire immediatamente dopo un passo d’allontanamento. Come i due poli opposti di un magnete, sembra quasi che Su e Chow non potranno mai toccarsi. E anche quando poi lo faranno… se dessimo retta alla teoria delle particelle non sarebbe mai successo.

Un amore universale

Strano modo di cominciare, citando la teoria delle particelle per parlare di amore universale. Soprattutto perché, per come ci è stato raccontato, In the Mood for Love sembra non avere nulla dell’amore universale. Semmai all’opposto, sembra proprio quell’amore che pochissimi possono dire di aver provato in una vita. Eppure, come detto, più che un film d’amore In the Mood for Love è un film sul romanticismo, e in questo gioca tantissimo l’elemento d’attrazione. Attrazione dello spettatore per questi due formidabili, bellissimi interpreti. Attrazione fra di loro, ovviamente. Un tipo d’attrazione molto più “comune”, quotidiana diciamo, di quanto si possa pensare. Che ci coglie d’improvviso. Il fascino dello sconosciuto, sia esso il futuro e quello che ha da riservare, o la sua personificazione incontrata per caso. Quanto succede fra Chow e Su è quello che ci succede ogni giorno quando sfioriamo qualcuno per strada, quando incrociamo uno sguardo in un negozio, quando fantastichiamo sul possibile ma già rispondendoci che non sarà mai possibile, già mettendo una distanza. Ed è proprio in quella distanza che sta tutto quell’amore.  

Prima del 2000, il cinema ci aveva insegnato che l’amore si vede in un bacio, in una carezza, in qualcosa che appunto si possa vedere fisicamente. E allo scoccare del nuovo millennio invece, Wong Kar-wai ribatte che l’amore sta proprio in tutto quel flusso di particelle invisibili che si riducono, via via, nell’attimo prima di dare un bacio. Possiamo accorciare o allungare la distanza, diminuire o aumentare le particelle che ci separano, ma il desiderio d’amore rimarrà comunque lì, sempre più forte quanto più cerchiamo di allontanarlo. La teoria delle particelle dice che gli atomi non si toccano mai, che un campo magnetico si interpone fra due corpi, creando una forza respingente. Quindi in realtà anche quando ci baciamo, quando pensiamo di starci toccando, in realtà non ci tocchiamo, una distanza persiste sempre, per quanto infinitesimale. Quindi che differenza c’è con Chow e Su? C’è meno amore nella loro distanza? O forse ce n’è di più, ché persiste nonostante? Eccola, la teoria delle particelle: ci dice che no, non c’è differenza.

È un capolavoro

Teoria delle particelle, fotografie acide, motivi floreali, porte chiuse, brani jazz e walzer danzanti, pezzi mancanti, ricordi e amori interrotti: tutto converge a dirci, insomma, che In the Mood for Love è, senza esagerare, uno dei più grandi capolavori nella storia del cinema. È forse il più grande capolavoro di Wong Kar-wai nella misura in cui vi racchiude l’espressione massima di tutto il suo cinema. L’avrebbe portato alle estreme conseguenze con il successivo 2046, quasi un sequel apocrifo per il personaggio di Tony Leung Chiu-Wai. A quell’esperimento successivo, il regista avrebbe riconosciuto lo status di summa di tutto il suo lavoro, ma prese insieme le due pellicole rappresentano senz’altro il picco più alto raggiunto dalla sua filmografia.

Un cinema fatto di poesia, il suo. Di storie “di coppia” ma lontanissime dal significato canonico del termine, in cui la ricerca dell’immagine è centrale ma mai preponderante rispetto al senso che intende trasmettere, non esce mai fuori traccia. Un cinema degli angeli, non importa se in caduta libera. Un cinema che prende strade e sottovie completamente diverse (anche se spesso confuse) rispetto alle altre correnti orientali, dalla Cina alla Sud-Corea. Un cinema fatto innanzitutto di bellezza, tutta quella che un film può contenere. Una bellezza di cui oggi, forse anche più di 25 anni fa, c’è disperato bisogno. E che vi avvicinerà come mai avreste creduto, distanza, potesse avvicinarvi. 

E allora fatevi un gran favore. Andate (o tornate) a vedere In the Mood for Love il 17-18-19 febbraio, in versione restaurata in 4K che tutto questo tornerà a far splendere, su schermo.

 

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.
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