I film di Kaurismäki sono ricchi di suggestioni e citazioni da autentico cinefilo. Non fa eccezione Foglie al Vento, il suo ultimo capolavoro a Natale in sala.
“Chaplin è sempre il migliore. Ha creato il cinema com’è oggi. Mi piacciono molto anche Luis Buñuel e Marcel Carné, ma Chaplin è sempre il migliore, perché ha mantenuto la semplicità”. Lo ha detto Aki Kaurismäki, nel presentare al Festival di Cannes il suo ultimo film, Foglie al vento. Classe 1957, il finlandese più famoso del cinema è un cinefilo dalla conoscenza enciclopedica, raro esempio di critico cinematografico passato con successo alla regia. Ma è stato anche magazziniere, palombaro, lavapiatti, tra le tante occupazioni intraprese prima. Infatti pochi come lui sanno filmare il lavoro: dal processo di produzione che apre La fiammiferaia (1989), quasi un omaggio a colori a Tempi moderni (1936), alle pause sigaretta nel turno e agli armadietti degli spogliatoi delle fabbriche, presenze assidue come i jukebox, da un film all’altro. Foglie al vento inizia alla cassa di un supermercato, appena prima che si consumi una vigliaccheria tra poveri cristi, lavoratori con zero diritti.
Come Charlie Chaplin alla United Artists, dai primi anni Ottanta Kaurismäki produce, scrive, dirige e monta i suoi film in totale autonomia, supervisionando ogni aspetto. La società di produzione fondata nel 1981 col fratello Mika, anche lui regista, si chiama Villealfa, in omaggio ad Agente Lemmy Caution, missione Alphaville (1965) di Jean-Luc Godard, altro nume tutelare. A distribuire i loro film, fino al 2001 circa, è stata la Senso, per ammirazione dell’eleganza di Luchino Visconti, e in Foglie al vento, anche se in un contesto improbabile, si riconosce una locandina di Rocco e i suoi fratelli (1960). Nel documentario del 1993 Talking With Ozu di Kogi Tanaka (in buona compagnia, tra gli altri, di Lindsay Anderson, Paul Schrader, e naturalmente Wim Wenders) ha dichiarato apertamente il suo debito verso Yasujirō Ozu: per la composizione meticolosa dell’inquadratura, la compostezza, la profondità di campo, il livello di espressività e intimità che l’autore di Viaggio a Tokyo raggiunge senza mai calcare la mano su nessun elemento della messa in scena.
Kaurismäki ha girato parecchi dei suoi film con la stessa macchina da presa Arriflex che Ingmar Bergman gli passò dopo aver realizzato Fanny e Alexander (1982): il gusto per i volti impassibili, ripresi frontalmente, in primi piani illuminati ad arte, sembra arrivare anche dal grande svedese. Ma la fotografia di Timo Salminen, coautore delle sue immagini dal 1981, si è affinata, cercando contrasti cromatici sempre più accesi, lucidi, definiti. E la penna dello sceneggiatore ha intercettato con sempre maggior precisione l’imbarbarimento sociale, il cinismo, la deriva capitalista. La recitazione quella no, non è mai cambiata. Si attiene ai dettami di Bertold Brecht: donne e uomini congelati, eppure attraversati da grandi dolori e passioni. La sua filmografia è un mondo a sé, che vive di contrasti, sarcasmo e poesia, dialoghi oltre il laconico, grandi sogni inespressi e catastrofiche cadute. Sono film pieni di gente che in silenzio lavora, beve alcol, fuma, si rifugia al bar aspettando l’amore, o il lavoro. Spesso entrambi. Si parla molto poco e quando non si finisce sulla strada, in prigione, o all’ospedale, e si rimedia un’uscita con qualcuno, si va al cinema.
In Foglie al vento i due protagonisti, Ansa (Alma Pöysti) e Holappa (Jussi Vatanen), al loro primo appuntamento vanno a vedere I morti non muoiono (2019), zombie movie di Jim Jarmusch. O meglio, Amsa segue l’azione mentre Hoppalla sembra più concentrato su lei, come Janne Hyytiäinen, innamorato perso di Maria Heiskanen in Le luci della sera (2006). La citazione è l’ennesimo segno di stima per l’amico regista, rock e indipendente, da lui già convocato come venditore di auto nel rockabilly Leningrad Cowboys Go America (1989). All’uscita dalla sala, il regista posiziona Ansa e Holappa tra locandine che, a rigor di logica, non dovrebbero essere lì, come le insegne dai nomi esotici che spuntano come funghi sui suoi set. Quella più evidente è di L’argent di Robert Bresson (1983) che sta per l’eterna tirannia del denaro, ma ancor di più per l’essenzialità, l’economia del racconto. Poi ancora Godard, con Il disprezzo (poi vedremo anche Pierrot le Fou), perché il giorno in cui è stata girata quella scena è arrivata sul set la notizia della sua morte. E allora lo si saluta così, inscrivendo per sempre le sue immagini nel film in lavorazione.
Poco lontano sta Il continente scomparso di Sam Newfield (1951), B-movie di mostri preistorici che allude ad atrocità più contemporanee e a una società allo sbando. Poi Breve incontro di David Lean (1945), il film dalla trama esile – come direbbe Kaurismäki, semplice – che fa da vaga traccia per Foglie al vento: lui e lei (Trevor Howard e Celia Jones) si incontrano e forse potrebbero amarsi, ma il destino si mette in mezzo. Il gioco continua, a qualche scena di distanza, con i manifesti di Città amara di John Huston (1972), Lo spaccone di Robert Rossen (1961) e I senza nome di Jean-Pierre Melville (1970): tre splendidi esempi di noir e istinto autodistruttivo dei duri a cui il finlandese attinge quando crea figure di portuali sfruttati e criminali di secondo piano. Copiando sempre dai più bravi: in Ho affittato un killer (1990) – dedicato a Michael Powell, che con Emeric Pressburger realizzò fiammeggianti capolavori come Scarpette rosse – il protagonista era Jean-Pierre Léaud, alter ego celebre di François Truffaut. Ma anche, perché no?, da Dostojevski (Delitto e castigo, 1983) e Shakespeare (Amleto si mette in affari, 1987).
Ricercatissimo anche nelle scelte musicali, in Foglie al vento il regista semina riferimenti e suggestioni fin dal titolo originale: Kuolleet lehdet è anche la versione che si ascolta a Helsinki della canzone Les feuilles mortes. Testo di Prévert, musica di Joseph Kosma, composta per e portata al successo da Mentre Parigi dorme (1946) di Marcel Carné. Un “tema del destino”, di felicità perduta, interpretato da molti, tra cui Yves Montand. Qui la sentiamo dalla voce del finlandese Oleavi Virta, la stessa della cover nordica di Mambo italiano. Con il titolo Autumn Leaves, il brano ricorre anche come tema conduttore di Foglie d’autunno di Robert Aldrich (1956), melodramma psicologico con Joan Crawford e Cliff Robertson. Mutuo salvataggio tra una matura signora e un più giovane squilibrato in cui palpitano analoghe amarezze e solitudini. Difficile dire chi salva chi; certo è che nessuno si salva da solo. Il film è contemporaneo di Come foglie al vento di Douglas Sirk (1956): quintessenza della tragedia d’amore di cui si nutre anche il cinema di Rainer Werner Fassbinder. Quel diritto del più forte che li domina si impone anche sui personaggi di Kaurismäki e li opprime. La differenza è che per il finlandese questa non è una ragione sufficiente per abbandonare la speranza.
Diseredati, nullatenenti in cerca d’affetto, Alma Pöysti e Jussi Vatanen sono i degni successori degli imperturbabili, irresistibili Kati Outinen e Matti Pellompää, habituées incontrastati, da Ombre nel paradiso (1986) a Nuvole in viaggio (1996), di una filmografia che si osserva affascinati come si fa con le palle di vetro con la neve. Un mondo autoconcluso, depresso, atemporale eppure così vicino al nostro presente, interrotto solo qua e là da lampi di rock e di tango. Se non fosse per il film di Jarmusch o perché Ansa ha bisogno di un computer, non sapremmo dire in che anni sia ambientato Foglie al vento. Ma con un calendario che segna il 2024 il regista ci dice (con un anno di anticipo) che la guerra non finirà presto. E che quindi è meglio stringerci, ancorarci all’unica cosa preziosa che ci è rimasta: l’umanità. Mentre la radio riporta i bombardamenti in Ucraina, anche sulla stazione di Chaplyne, il finale evoca, di nuovo, Tempi moderni. Lì il tramp, il vagabondo senza nome con bombetta, scarpe rotte e bastone e la ragazza di strada (Paulette Goddard) con un fagotto per bagaglio. Qui, un loser con le stampelle, i vestiti di un altro e una ragazza con cui ricominciare, forse. Con loro c’è un cane, che sì, ha proprio un bel nome: Chaplin.