La regista e sceneggiatrice di Past Lives, al cinema dal 14 febbraio con Lucky Red, racconta il suo processo creativo, il rapporto con la scrittura e con il tempo e l’emozione che ha provato per la nomination agli Oscar nella categoria dedicata al miglior film.
Past Lives di Celine Song, al cinema dal 14 febbraio con Lucky Red, non è un racconto completamente autobiografico. Certo, ci sono degli elementi che ritornano e che tendono a somigliarsi. Ma c’è pure molto altro. Per Song, diventare una regista è stato un passaggio naturale in un percorso che è partito dalla scrittura. Il teatro, racconta, fa parte delle sue radici, del suo modo di vedere il mondo e le cose; e soprattutto è stata la scuola che le ha permesso di capire come mettere in contatto personaggi e pubblico. Past Lives è arrivato in un momento particolare della sua vita: può essere visto e letto in molteplici modi, come una storia d’amore tutto sommato tradizionale o come una serie di livelli narrativi che ci mettono in contatto con noi stessi – con ciò che eravamo e che non siamo più, per esempio.
Parla di tempo e spazio, Past Lives. E parla, sottolinea Song, di contraddizioni. La nomination agli Oscar, nella categoria per il miglior film, rappresenta un’occasione per raggiungere un pubblico più ampio e per dare modo a chi voleva vedere Past Lives di recuperarlo. Song è un’entusiasta, e non è un’esagerazione. Nelle sue risposte, torna sempre una consapevolezza precisa, appassionata, che mette insieme ogni cosa, ogni spunto, e che traccia un quadro enorme in cui le persone – noi, gli spettatori, lei, la regista, e gli attori – convivono e in cui la nostra realtà entra in continuità con quella del racconto.
Scrivere, dice Song, le permette di esprimere concetti che a parole non saprebbe formulare. Ed è un controsenso, e lo sa. E lo ammette candidamente: questo è un controsenso. Eppure è in questa alternanza continua di punti di vista, di sensazioni e di meraviglia che viene fuori la sua identità come autrice. Perché Song è un’autrice, fate attenzione: una delle rappresentati di un nuovo cinema più semplice e concreto, fatto di storie apparentemente piccole e in realtà universali.
Past Lives è un film sospeso nel tempo, diviso tra passato e presente, in cui il futuro non esiste – o almeno, non è quello a cui pensano i personaggi. L’amore, qui, è una questione di sfumature, di mani che si sfiorano per caso, di sorrisi scambiati su Skype e di lunghe chiacchierate fatte al buio, mentre si sta in un abbraccio morbido. I silenzi, spiega Song, sono indispensabili. Perché nei silenzi il pubblico ha modo di ricalibrare la propria attenzione e di capire che cosa sta succedendo. I silenzi sono come la punteggiatura di un film, come le virgole e i punti: vengono via veloci, naturali, ricchi o spessi. E Past Lives è un racconto articolato, pieno di queste pause, che ci chiede – per più di un’ora e mezza – di ascoltare.
Anche se solo in parte, questo è un film sulla tua vita. È indispensabile, secondo te, provare certe esperienze per poterle raccontare?
«Credo che dipenda da diverse cose, non da una sola. Ma soprattutto credo che sia fondamentale il modo in cui un determinato tema finisce per ispirarti. Nel mio caso, è successo. E c’è sicuramente, come dicevi anche tu, qualcosa di autobiografico. Perché mi è davvero capitato di rincontrare un amico di infanzia, per cui avevo una cotta da bambina, e di vivere a New York con mio marito. In quell’istante, è nata un’idea che è rimasta con me per molto tempo. Solo successivamente, però, ho deciso di trasformarla in qualcosa di più articolato e complesso come una storia».
E hai pensato immediatamente di girare un film?
«In realtà no, ho dovuto riflettere anche su questo aspetto. Sono partita dalla scrittura».
Di quanto tempo hai avuto bisogno per capire che questa era la storia giusta per il tuo debutto come regista?
«Non è subito chiaro. Ci sono tanti fattori che vanno presi in considerazione. Per esempio, il modo in cui una storia viene scritta. Capisco il tuo punto di vista, come giornalista: decidi subito, prima ancora di metterti al lavoro, di che cosa parlerà il tuo prossimo articolo. Ma quando scrivi qualcosa che è in parte finzione, che ha bisogno di sedimentare e di crescere, devi imparare innanzitutto a conviverci».
Ed è un processo immediato?
«È un pensiero che mette radici dentro di te, che ti accompagna per molto tempo, e che tu devi capire come visualizzare. Quindi no, non è immediato. Ci pensi, ci ripensi, vai avanti e indietro. Continuamente. E poi un giorno ti decidi, ti dici: perché non provo a scriverlo? E lo fai, e a quel punto hai a che fare con un’altra serie di problemi e sfide. Però, ecco, non è detto».
No?
«No, non lo è. Puoi iniziare a scrivere qualcosa, arrivare anche a buon punto, e poi renderti conto che non funziona, che non è la storia giusta. In questo caso, è andata bene. Perché ho saputo fin dal primo momento quale doveva essere la conclusione e il modo in cui il racconto doveva suonare. È stato un processo decisamente più organico».
Quindi sei stata subito sicura?
«No. (ride, ndr) Voglio dire, ho iniziato a scriverlo come ti ho detto, ma per tutto il tempo continuavo a farmi la stessa domanda. E cioè: andrà veramente bene come film? Dopotutto, i protagonisti sono tre persone ordinarie che passano insieme una notte straordinaria. Niente di più. Per questo motivo non ero sicura. Ma alla fine sono comunque andata avanti, ho finito di scrivere e ora eccoci qui. Non è incredibile?»
Credi che in questo momento il pubblico abbia bisogno di più storie come Past Lives? Storie più concrete, più semplici, in cui quella che viene messa in scena è la vita di ogni giorno?
«Visto che Past Lives è il mio primo film, non so se posso rispondere a una domanda come questa, così grande e assoluta. Non so dirti, e sono onesta, di che cosa abbia bisogno il mondo o il pubblico in generale. Posso parlarti di me, di quello che ho fatto. Molte persone hanno amato il mio film, e sono andate al cinema a vederlo e l’hanno fatto sia da sole che con i loro amici. E questa, per me, è la risposta più importante di tutte. Perché è la dimostrazione – e, di nuovo, mi limito al mio caso – che c’è una fame per questo tipo di storie».
Tu, però, che cosa pensi?
«Penso che ci siano sicuramente delle persone che hanno bisogno di questo genere di storie; non so dirti quante, se tante o poche. So che ci sono. E so che ci sono persone che sono disposte a mettersi in fila, a pagare un biglietto e a prendere posto in sala per vedere film come Past Lives. Quindi, forse, è a loro che andrebbe fatta questa domanda».
In Past Lives, resiste una dimensione quasi teatrale, soprattutto quando i due protagonisti parlano su Skype.
«Non importa se stiamo parlando di una pièce teatrale o di un film; le basi di partenza del racconto sono le stesse, così come è lo stesso il modo di collegare i personaggi al pubblico. Tutto quello che so sulla storia, sul modo di raccontarla, di metterla in scena, sugli spettatori e sul linguaggio da utilizzare viene innanzitutto dal teatro, perché ci ho lavorato, perché lo conosco bene e perché è stata una delle prime realtà con cui mi sono confrontata. Parte delle fondamenta di ciò che sono, come filmmaker, deriva dalla mia esperienza come drammaturga. Ed essere drammaturga significa innanzitutto avere a che fare con la scrittura, ed è quella la prima cosa da cui mi faccio guidare. Per me, quindi, ha senso che ci sia questa risonanza tra i linguaggi».
In che cosa, in particolare?
«Pensa ai silenzi. In teatro, il silenzio rappresenta un invito al pubblico a rimanere in ascolto e a seguire con attenzione quello che succede sul palco. Il silenzio è uno degli elementi più importanti e potenti del nostro modo di comunicare. Sappiamo immediatamente che cosa vuol dire un silenzio in un racconto, e in un film è un tacito patto tra più parti».
Ma sono davvero così simili, il teatro e il cinema?
«È chiaro, come ti dicevo, che ci sono dei punti in comune. Ma restano, ovviamente, due cose distinte e separate. Il teatro fa parte delle nostre radici come comunicatori e narratori di storie; il cinema richiede altre cose, si basa sulle immagini e sulla loro potenza».
Past Lives non racconta solamente la storia di un uomo e di una donna che si rincontrano dopo diversi anni. È anche un modo per parlare di noi e del nostro rapporto con il tempo. È stato difficile rappresentare questo aspetto?
«Per me, questo è innanzitutto un film sul tempo e sullo spazio, sulle persone che eravamo una volta e su quelle che poi siamo diventate, sui cambiamenti che abbiamo affrontato e su quelli che, invece, non abbiamo ancora vissuto. Insomma, Past Lives è un film sulle contraddizioni. Dentro di noi, ci sono ancora i bambini che siamo stati una volta. La cosa più difficile è riuscire a rappresentare in modo esatto, non banale e nemmeno retorico, questo aspetto».
E come si fa?
«Stando attenti, per esempio, nel casting. In Past Lives, i due bambini che interpretano i protagonisti da giovani sono fondamentali per il resto del racconto. Perché incarnano esattamente ciò che, anche da adulti, proveranno. Serve costruire una chimica tra gli attori. Che non può essere semplice attrazione fisica, ma che deve tenere in considerazione diversi elementi. I protagonisti devono essere, e allo stesso tempo non essere, sé stessi. La stessa lingua che parlano, in qualche modo, riflette questa contraddizione».
Oltre la contraddizione, però, resiste anche un certo equilibrio.
«E infatti Arthur e Hae, il marito e l’amico di infanzia di Nora, sono entrambi consapevoli di conoscere una parte di lei che l’altro non conosce. E anziché combattere per questo, passano insieme una serata provando a capirsi. In sottofondo, a un certo punto, sentiamo You know more than I know di John Cale, che coglie perfettamente questo aspetto».
Qual è, allora, la verità?
«La verità è che siamo fatti di tante parti, e che ognuna di queste parti è conosciuta da persone diverse che, in questo modo, ci vedono in modo unico e differente. Non siamo mai soltanto una cosa. Amare qualcuno significa riconoscere le moltitudini che abitano dentro di lui o di lei e accettarle. Ed è così per tutti».
In un’intervista, hai detto che hai cominciato a scrivere quando eri ancora una bambina. Perché? Che cosa trovi di così necessario nella scrittura?
«Scrivere mi permette di comunicare anche quando non ho le parole giuste per farlo. E lo so, suona come l’ennesimo controsenso. Ma è vero. Quando scrivo, ho accesso a un altro livello di consapevolezza e posso descrivere cose – sentimenti, situazioni, percezioni – che non hanno per forza un nome. Scrivere mi permette di essere chiara, di essere comprensibile».
Hai deciso di diventare una regista perché non eri particolarmente soddisfatta del lavoro che gli altri facevano sulle tue sceneggiature?
«No, assolutamente no. Io continuo a scrivere e continuo, talvolta, a limitarmi alle sceneggiatura. Se sono diventata regista, è perché è stato un passaggio naturale nel mio percorso. Per dirigere, non devi solo volerlo, devi avere anche qualcuno pronto a credere in te. E quando ci riesci, hai accesso ad altri strumenti – non solo alla parola scritta».
Past Lives è stato candidato nella categoria per il miglior film agli Oscar. Come ti fa sentire?
«Sono contentissima, credimi. Per me è veramente stupendo. Ma soprattutto credo che questo sia un modo per farlo conoscere ad ancora più persone e per permettere a chi voleva già vederlo di recuperarlo».
Provo a tornare all’inizio, alla prima cosa che ti ho chiesto. Quando si capisce che quella che si ha davanti e che si sta per raccontare è la storia giusta?
«Se è una storia che ami, se è una storia che non riesci a dimenticare, che ti ossessiona, è la storia giusta. Parte tutto da noi, alla fine. Se non siamo i primi a crederci, i primi a voler ascoltare una storia, nessun altro lo farà. Si tratta di fiducia e di consapevolezza».