Dall'alto di una fredda torre
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Dall’alto di una fredda torre, dal teatro al grande schermo

Dalla pièce di Francesco Frangipane e Filippo Gili, Dall’alto di una fredda torre è un film d’impostazione teatrale dai risvolti angoscianti.

Di Carlo Giuliano*

Era il 2015 quando il drammaturgo Filippo Gili scrisse una pièce teatrale portata sul palcoscenico per la regia di Francesco Frangipane. Lo spettacolo era parte di una più ampia Trilogia della Mezzanotte, che fin dal titolo – si intuisce – intendeva ragionare sulle questioni, le domande e i dilemmi più reconditi e angosciosi dell’animo umano: “Il tentativo del libero arbitrio, l’intercapedine fra la vita e la morte, il ribaltamento della linearità percettiva se la morte si fa viva, la disarticolazione dei parametri emotivi, la confusione del linguaggio doloroso – prima ancora del dolore in sé” – questi i temi della Trilogia raccontati per bocca di Gili.

Sette anni dopo, quella pièce diventa l’opera prima da regista di un lungometraggio per Frangipane, richiama a sé parte del talentuosissimo cast che aveva solcato il palcoscenico – a cui aggiunge attori del calibro di Edoardo Pesce, Anna Bonaiuto e Giorgio Colangeli – ma soprattutto mantiene quell’impostazione teatrale che vedeva tre coppie ragionare, in altrettanti ambientazioni, su una domanda impossibile: “Chi butteresti giù dall’alto di una fredda torre, se fossi costretto, fra le persone che ti sono più care?”. La risposta è tutta da scoprire, al cinema.

Teatrale nelle premesse e nella struttura

L’impostazione teatrale di Dall’alto di una fredda torre si vede fin da subito, a partire dalla sua semplicissima premessa narrativa, il motore che attiva tutto e che porterà i personaggi a ragionare intorno a un freddo tavolo. Mettendosi freddamente “a tavolino”, come si dice anche in gergo teatrale. Tre coppie, tre dilemmi diversi.

La prima è composta da Antonio (Edoardo Pesce) ed Elena (Vanessa Scalera), due gemelli eterozigoti che si vedono ricevere la più terribile delle diagnosi, quella che nessun figlio vorrebbe sentirsi dire: i loro genitori, Giovanni (Giorgio Colangeli) e Michela (Anna Bonaiuto) presentano, per coincidenza, una patologia rara arrivata all’improvviso e che li ucciderà in pochi giorni. Un trapianto di midollo potrebbe salvarli e la fortuna vuole che, appunto, abbiano due figli. Peccato che solo uno dei due si dimostrerà donatore compatibile, e da qui il dilemma: chi salvare dei due? Una coppia di medici composta da Anna (Elena Radonicich) e Marco (Massimiliano Benvenuto) li spingerà a una scelta impossibile, laddove il Giuramento di Ippocrate li porta a pensare freddamente che, dovunque si possa salvare almeno una vita, una decisione vada presa.

Il tre, numero perfetto, torna ricorrente nell’opera drammaturgica di Gili, qui anche sceneggiatore del film. La dimensione delle tre coppie che fu della pièce torna anche nel film, con un avvicendarsi di confronti a due e successivamente di confronto fra le varie coppie, ciascuna con la propria visione del mondo, ciascuna in realtà insidiata da due diverse visioni delle cose.

Lo stratagemma è gustosamente, marcatamente drammaturgico: costruire una congiuntura statistica talmente improbabile da essere quasi impossibile, per poi ragionare sulle ricadute psicologiche dei protagonisti. Due genitori, praticamente la stessa età, nessun acciacco e una malattia rarissima che colpisce entrambi praticamente nello stesso momento. Due figli, gemelli eterozigoti, sicuri donatori, problema risolto. O forse no, perché uno dei due non potrà donare il midollo, e qui scatta la scelta. In ciascuno di questi passaggi la domanda che sorge è: “Qual era la probabilità”. Tendente allo zero, ma se poi si verifica? 

È come se Gili e Frangipane avessero lavorato a ritroso, puntando a un’estremizzazione del tema della scelta e da essa muovendo per delineare le variabili di questa equazione, di questo esperimento da laboratorio in cui ogni possibilità di prendere una decisione sulla base di dati oggettivi – “Chi è più anziano?” “Chi ha già una salute cagionevole?” “Chi potrebbe vivere senza l’altro?” – è sottratta ai protagonisti. È quello che nella scienza che analizza i fattori di rischio si chiama worst-case scenario. E allora, come dice Francesco Frangipane: “Se non ci sono quegli estremi, per trovare una risposta bisogna scendere ancora più giù, all’inferno”. 

Tra filosofia etica e variabili emotive, il freddo e il caldo 

C’è molta filosofia, molto dilemma etico in Dall’alto di una fredda torre. Qualcuno potrebbe notare che anche la filosofia etica di Kant era tripartita; sicuramente si parla di weltanschauung, di diverse concezioni del mondo. Ma c’è anche quella bipartizione fra etica della convinzione ed etica della responsabilità, che ricorda molto il dilemma del treno in corsa che sta per investire cinque persone: se non si interviene ne morranno in cinque; se si scambia il binario, ne ucciderà solo una. Per l’etica della convinzione, quella di Elena, agire significa partecipare materialmente a un assassinio, e non salvare qualcuno. Per l’etica della responsabilità, quella dei medici e di Antonio, non agire significa avere su di sé la responsabilità di una morte in sovrappiù, evitabile.

Quanto è inquietante anche solo parlare di morte in sovrappiù? E quanto le strutture drammaturgiche sono perfette per ragionare su questi temi, per creare il silenzio necessario ad arrivare a una risposta impossibile?

Ovviamente, al fianco dei dilemmi più gustosamente filosofici, tantissimo di questa pièce e ora di questo film lo fanno le traiettorie emotive, perché la domanda diventa: “A chi vuoi più bene?”. Le dinamiche di interrelazione fra i personaggi sono la vera dimensione preponderante in un film che punta a ridurre sullo spazio fisico, proprio come su un palcoscenico: una cascina, una sala da pranzo, una stanza d’ospedale. Ma che vive anche di una forte componente tragica: “È una tragedia greca moderna”, dice Edoardo Pesce citando anche il Mito di Elettra e quello di Edipo.

Vanessa Scalera e Massimiliano Benvenuto avevano già solcato le scene dello spettacolo del 2015 e tornano ora su schermo con un cast tutto di provenienza e formazione teatrale, riportando quel dramma vissuto in tutta la sua claustrofobia. Come a dire che siamo qui, da soli, rinchiusi in queste quattro mura, da soli con i nostri pensieri. Che non si può sfuggire, che non si potrà uscire a guardar le stelle se non dopo aver preso una decisione. Anche se si dovesse decidere di non prenderla affatto, di non fare nulla: anche quella sarebbe una decisione, sarebbe fare qualcosa. E forse per questo è ancor più terribile.

Qualunque essa sia potete scoprirla, solo al cinema. Anche voi, soprattutto voi spettatori, a osservarla Dall’alto di una fredda torre.

 

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.
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