Il piacere del palato è un vero e proprio genere cinematografico esplorato dai cineasti di tutto il mondo. Ecco un menù internazionale per far venire un po’ di acquolina
Cinema e cibo, connubio indissolubile, soprattutto negli ultimi anni, in questa società dell’immagine in cui tutti possono aspirare a diventare chef e gourmand, grazie a reality culinari di vario genere e l’ausilio dei social per chi vuole intraprendere il mestiere del creator tra pizze, hamburger e ristoranti stellati.
La fascinazione che il gusto ha avuto sui cineasti viene da lontano e non ha confini, si potrebbe comporre un menù ricchissimo e praticamente infinito, che può spaziare dalle più semplici pietanze delle tradizioni regionali alle più fantasiose e quasi scientifiche creazioni dei più grandi chef del mondo. È quasi naturale, come primo pensiero, ricordare La grande abbuffata di Marco Ferreri, opera ideologica che attraverso la programmatica autodistruzione attraverso il cibo di un quartetto di edonisti racconta il decadimento morale e intellettuale di una società opulenta e vuota. Già, perché il cibo è uno strumento politico, eversivo e rivoluzionario, anarchico perché risultato di un gesto artistico, indipendentemente dal livello sociale ed economico in cui viene preparato o somministrato. Lo spiega bene The Store, in cui ciò che viene buttato ogni sera da un supermercato diventa riserva di una comunità che ha deciso di tagliare i ponti con la società capitalista. E per conservare ciò che sarebbe andato perduto usano la tecnica della fermentazione, che è anche una delle nuove frontiere di riscoperta da parte di molti chef stellati in tutto il mondo.
La combinazione degli elementi, e in questo caso alimenti, è una sintesi tra arte e scienza. Metodi di cottura antichi ma per cui è necessaria destrezza e tempismo al secondo, come raccontato in Hunger, storia di una giovane dal talento naturale nell’uso del wok, la padella quasi unica della cucina orientale (thai, in questo caso, diretto da Sitisiri Mongkolsiri, lo trovate su Netflix). Gesti che tendono alla perfezione e che nella maggior parte dei casi si trasformano in ossessione, problema comune alla quasi totalità degli chef. Il sapore del successo, drama-comedy di John Wells con protagonista un ottimo Bradley Cooper, lo spiega bene nel suo titolo originale: Burnt. Che vuol dire bruciato, e può valere per una pietanza, ma anche per chi la stracuoce. Le cucine sono organismi complessi che possono essere esplorati in tanti modi diversi. Senza stacchi, come in Boiling Point di Philip Barantini. O attraverso l’osservazione attenta da parte di un maestro del documentario come Frederick Wiseman, che in Menus Plaisirs racconta cosa c’è dietro una delle più importanti dinastie culinarie di Francia.
Quella Francia in cui è ambientato Il gusto delle cose, dal 9 maggio al cinema, storia del rapporto tra una chef geniale e il suo benefattore, un filosofo del palato che attraverso i sapori dà un senso al corso stesso della Storia, oltre che, naturalmente, alla vita. E all’amore, espresso splendidamente dalla macchina da presa leggerissima di Tran Ahn Hung che danza perfetta attorno ai fornelli, con sguardi d’intesa che fendono i fumi di cottura di un brodo preparato secondo una ricetta antica, sorrisi accennati che tradiscono una complicità che solo chi comprende la sensualità della perfetta marinatura del fois-grois può riconoscere. C’è gioia nella cucina di Dodin Bouffant, anche quando la speranza sembra perduta, perché i sapori sono memoria persistente che non abbandonano mai chi li ha provati. E ce ne saranno sempre di nuovi.
Sapore: questa è una parola chiave. Abbas Kiarostami ha raccontato come quello della ciliegia (di un gelso, per essere precisi) possa far tornare la voglia di vivere nonostante tutto. Il gusto dell’anguria, secondo Tsai Ming-liang, può portare alla scoperta di un erotismo nuovo e travolgente. Il connubio tra cinema e sesso è indissolubile, bene lo ha spiegato Peter Greenaway ne Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, in cui i pantagruelici pasti ordinati e consumati dal laido protagonista sono la scusa per torridi e fugaci incontri passionali, organizzati proprio da chi in cucina è divinità e tutto muove. Fino alle estreme conseguenze, come racconta l’ottimo gastro-horror The Menu, in cui un grande chef è deciso a mondare i peccati del suo piccolo mondo di dodici coperti.
Ma non sono tutti cattivi. Come l’indimenticabile Babette, e il suo pranzo, protagonista di uno dei classici del genere. Consiglio vivamente di programmare una gita a Salerno, dove Sabrina Prisco, chef e splendida padrona di casa dell’Osteria Canali, nel cuore del centro storico, organizza regolarmente una perfetta replica, nel menù e nel set-up della tavola, de Il pranzo di Babette.
Il desco è un altro elemento imprescindibile, riunirsi attorno a ciò che ci offre sostentamento e nutrimento è insito nella natura, non solo umana. Che sia la carcassa di un’antilope per un branco di leoni o il pranzo della domenica da nonna, a tavola si consumano drammi e si risolvono problemi. Possono essere questioni di famiglia, come quelle di Mangiare, Bere, Uomo, Donna, altro classico, firmato Ang Lee. Rapporti tra uomini e donne, e ancora ci chiediamo cosa avesse preso Sally quel giorno a pranzo con Harry. Talvolta facendo parlare solo il cibo, come nella meravigliosa scena finale di Café Lumière del maestro Hou Hsiao-Hsien, in cui si apparecchia una tavola semplice e sontuosa al contempo, sapendo che tutto ha finalmente un senso. Oppure dandosi, tra fratelli, il tempo di preparazione di una banale frittata. La scena finale di Big Night, esordio alla regia di Stanley Tucci è una perfetta sintesi di quello che è il rapporto tra cinema e cibo: tempo, movimento, scrittura. Servito.