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Intervista
“Emilia Pérez è la speranza”: intervista a Jacques Audiard e Karla Sofía Gascón

Importanza della rappresentazione e ricerca di libertà: il regista Jacques Audiard e l’attrice Karla Sofía Gascón raccontano Emilia Pérez.

Di Carlo Giuliano*

Per chi l’ha visto al Festival di Cannes, Emilia Pérez è stata una delle migliori e più travolgenti scoperte del 2024. Per chi lo vedrà al cinema a partire dal 9 gennaio potrebbe diventare già uno dei migliori film del 2025. Per la protagonista Karla Sofía Gascón non c’è dubbio: “È il migliore”. Lei è di parte, ma potrebbe anche avere ragione.

Per il suo ruolo, Gascón è diventata la prima attrice transgender a vincere il Prix d’interprétation féminine, premio andato in condivisione con le altre tre, magnifiche interpreti del cast: Zoe Saldaña, Selena Gomez e Adriana Paz. Ora Emilia Pérez è il film capolista dei prossimi Golden Globe con ben 10 candidature, di cui numerose nei premi principali, nonché nella shortlist degli Oscar per il Miglior Film Internazionale, dove rappresenta la Francia.

Alla regia c’è Jacques Audiard, autore poliedrico e di genere per film come I fratelli Sisters e Parigi, 13Arr. e già Palma d’Oro nel 2015 per Dheepan – Una nuova vita. Con Emilia Pérez ci consegna uno dei film più innovativi degli ultimi anni, per la miscellanea di generi, tematiche e ambientazioni. È infatti la storia (messa in scena musicalmente) di un pericolosissimo narcotrafficante messicano desideroso (o, dovremmo dire, desiderosa) di intraprendere il percorso di affermazione di genere e cambiare vita. Per riuscirci si farà aiutare da dell’avvoata Rita Moreno Castro (Zoe Saldaña), ormai stufa di difendere la feccia, e senza che i suoi figli e sua moglie Jessie (Selena Gomez) lo scoprano. Da che era carnefice, Emilia userà il suo patrimonio in aiuto dei parenti dei desaparecidos, così da riparare ai suoi delitti e a una tragedia collettiva che da anni tiranneggia il Messico per mano dei Cartelli.

In occasione dell’uscita del film abbiamo intervistato regista e protagonista.

Intanto congratulazioni per il film, per me è stato uno dei migliori dell’anno.

Karla: [Scherza] No, non “uno dei”. Parla con proprietà, grazie.

Allora posso dire che per me doveva essere una Palma d’Oro? A questo punto parto da Jacques chiedendo semplicemente: dove ti è venuta l’idea? Come hai anche solo potuto immaginare di mettere su schermo questa follia di generi?

Jacques: Beh, ammetto che non è che mi sono svegliato una mattina e mi è venuto in mente di fare questo film, di mettere in scena questa follia. L’idea iniziale non è mia. Mi è venuta leggendo un romanzo ambientato in Messico [NdR: il romanzo è Écoute (2018) di Boris Razon] nel quale c’era un personaggio, un narcotrafficante, che voleva intraprendere il percorso di transizione di genere, o per meglio dire di affermazione di genere. Ma poi nel romanzo invece questo personaggio non veniva sviluppato. E quindi mi è venuta la voglia di svilupparla io, questa storia, di darle un seguito. La mia prima stesura somigliava molto più a un libretto d’opera che a un film.

Emilia Pérez è un film in cui la delicatezza della rappresentazione o delle rappresentazioni è cruciale: rappresentazione del percorso di affermazione di genere, ma anche di un Paese con tutti i suoi problemi, il Messico. Come avete lavorato fra voi due affinché le vostre diverse sensibilità potessero parlarsi e aiutarsi a vicenda?

Jacques: Innanzitutto, la mia idea di cinema è assolutamente collettiva, collaborativa. Mi piace proprio quest’idea di un collettivo che con tutte le sue diverse sensibilità mira a metterle insieme per puntare all’unisono verso un unico obiettivo. Spesso, all’inizio, non si è tutti allineati, ma poi sempre più, e questo processo per me comprende tutte le maestranze, gli attori certamente, ma anche la troupe, i tecnici, tutti. Sinceramente non so come facciano altri registi che non la vedono in questo modo.

Quindi direste che c’è stato un vero e proprio contributo creativo da parte di Karla?

Karla: Io sono testimone di questo approccio. Jacques è il regista più aperto e libero con cui abbia mai lavorato in tutta la mia vita, mi ha dato il ruolo più bello di tutta la mia carriera. Lui riesce a individuare, tirare fuori e valorizzare il meglio di ciascuno di noi. Mette tutto sul tavolo e crea la magia. La prima volta che ci siamo trovati davanti questo progetto creativo, ciascuno di noi aveva in mente di fare il proprio film. I compositori volevano fare il loro show musicale, il coreografo il suo spettacolo di ballo, io volevo fare Mr. Bean e Mrs. Bean 2, Zoe Saldaña voleva portare la Repubblica Dominicana. E io dicevo: “Ma come fa questo regista ad avere tutta questa pazienza? A incastrare tutto?”. Ha preso ciascuno e ha chiesto: “Tu cosa sai fare meglio?”. Io per esempio non ballo, perché se mi mettevi a ballare il film se ne andava a quel Paese.

Jacques: [Scherza] C’è un romanzo di Norman Mailer che si intitola I duri non ballano.

Nonostante non venga mai pronunciata, trovo che una parola che ricorre in tutto il film sia quella di “prigione”. Il corpo può essere una prigione, un Paese può essere una prigione, gli altri possono essere una prigione. Chiedo a te, Karla: credi che nella società siano già presenti degli strumenti per combattere queste ideali prigioni o è proprio la società, la prigione da combattere? 

Karla: La società, assolutamente. La società è la prima prigione. C’è una cosa che facciamo tutti: cercare di sopravvivere, sopravvivere a ciò che la società ci mette davanti. E credo che un’evoluzione auspicabile per l’essere umano sia proprio riuscire a uscire da questa prigione. E questo, ripeto, vale per tutti: ciascuno ha la sua prigione, tu, io, Jacques. Perché tutti noi siamo spesso costretti a fare non quello che vorremmo, ma quello che altri si aspettano e pretendono da noi. Questo è il problema e per questo non siamo liberi. Tutti vogliamo mangiare gli altri, tutti passiamo la nostra vita a dissimulare, mentire, adeguarci ai comportamenti altrui. Chi per riuscire a trovare lavoro, chi per tenersi un partner. Tutti noi abbiamo un’oscurità con cui fare i conti, prima di uscire davvero allo scoperto, di venire alla luce. 

Jacques: Mi fai piangere.

Karla: Ma questo vale anche se molli tutto e te ne vai in campagna eh. Anche lì sei circondato da condizionamenti che dipendono dall’ambiente. Insomma, tutto è…

…una “carcel”. Però sembra esserci una speranza. Sembri dire che è più una prigione figlia delle circostanze, ma dovunque c’è questa prigione c’è anche la speranza di uscirne.

Karla: La speranza, esatto. Questo film parla della speranza. Questo rappresenta Emilia Pérez: una speranza.

Torno alla musica e per questo torno da Jacques. È un film pieno di musica, che certe volte esplode quasi come un grido di rabbia, un sibilo. Anche nel modo in cui il corpo e i corpi sono messi al centro, lasciati completamente liberi di esprimersi. Ma dall’altro lato questo è il risultato di rigide indicazioni coreografiche che noi non vediamo. Come si mettono insieme questi due opposti? Come si fa un film così millimetricamente studiato, anche nei movimenti di camera, ma per parlare di libertà?

Jacques: Innanzitutto, tantissimo del lavoro, il grosso, è stato fatto a monte, in pre-produzione. Abbiamo lavorato tantissimo sulle voci, abbiamo registrato dei playback, abbiamo lavorato tantissimo sulle coreografie. Se dovessi fare un consuntivo delle varie fasi, il pre è stato cruciale: tante prove, ma anche la costruzione delle scenografie, visto che il film è stato girato quasi interamente in studio. Quello che però volevo avere a disposizione era una modalità di lavoro che fosse simile a quella adottata nei miei film precedenti, di tutt’altro genere, che cioè non mi imponesse nulla, che non fosse così rigida e stringente da impedirmi di cambiare alcune cose a riprese in corso. Molte delle cose che hai visto non nascevano così in partenza, ma sono nate sul set. Se dovessi riassumere, direi che Emilia Pérez è un film al contempo rigido, che si è attenuto a delle regole, ma riservandosi la libertà di metterle da parte: “Bisogna fare così, ma se così non funziona, si può fare in altra maniera”. La costruzione e la decostruzione. Per dirti, tantissimo del ruolo di Selena Gomez è nato sul set, in corsa.

Voglio parlarvi della mia scena preferita, quella in cui la figlia di Manitas si ritrova con Emilia, non sapendo che si tratta del padre che crede morto, e le dice che “profuma come suo padre”, le elenca proprio tutti i diversi odori contrastanti che erano del padre. Per me quella scena rappresenta proprio “le contraddizioni”, il fatto stesso che tutti i personaggi siano a loro volta contraddittori. Ecco dobbiamo diffidare delle contraddizioni, nel film come nella vita, o sono un arricchimento?

Karla: Non c’è vita senza contraddizioni, nulla è scevro dalle contraddizioni. Un film senza contraddizioni è un film che non ha nulla da raccontare. Penso all’Amleto: l’arte stessa è contraddizione. La prima cosa che devi fare quando scrivi un personaggio è dargli una contraddizione.

Jacques: Io leggo la domanda sotto un altro punto di vista. Da autore, associo quella scena a un’altra che ha un po’ lo stesso registro, lo stesso escamotage, che è quella in cui Jessie (Selena Gomez) torna in Messico e incontra per la prima volta Emilia. Ecco, sono entrambe due scene di ironia drammatica, cioè quel processo per cui lo spettatore sa una cosa in più rispetto ad alcuni personaggi, il fatto che Emilia sia Manitas, mentre la sua famiglia non lo sa. Questo crea una tensione su cui si basa gran parte del film e che poi viene risolta nel brano Perdoname.

Un’ultima domanda, di metodo, perché se ne fa un gran discutere di questi tempi. E cioè che non si possa più dire niente, che se sei un uomo non puoi rappresentare le donne, se sei cisgender non puoi rappresentare la comunità transgender, se sei francese non puoi fare un film sui problemi del Messico perché rischi un approccio coloniale, da protettorato. Ma mi sembra che Emilia Pérez dimostri che si possa fare perfettamente e con ottimi risultati. Voi come rispondereste?

Karla: Posso risponderti con chiarezza? Nel processo di creazione non c’è religione, non c’è colore della pelle, non c’è genere, non c’è niente. Se sei un creativo, chi ti può venire a dire che non puoi mettere a disposizione la tua immaginazione per fare questo o quel film? Se tutti noi potessimo fare solamente film che abbiano a che fare con il nostro contesto ristretto, se avessimo potuto parlare solo di noi stessi, non avremmo avuto nessuna creazione artistica. Picasso non avrebbe potuto dipingere Guernica perché non era sotto i bombardamenti. Tutti gli esseri umani hanno una cosa in comune, primaria, che è uguale per tutti: la coscienza, e la consapevolezza. Siamo come gocce in un unico grande oceano, nel senso che tutti noi siamo una parte del tutto, abbiamo una comprensione dell’umanità. 

Mi ricorda la poesia di John Donne in apertura di Per chi suona la campana di Hemingway: “Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso. […] Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo all’Umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: essa suona per te”. Jacques? 

Jacques: Uno dei mali di cui soffriamo oggi – che è sicuramente la risposta ad altri mali, su questo non c’è dubbio – è una sorta di “privatizzazione delle cause”. Secondo questo ragionamento io non potrei parlare dei desaparecidos perché non sono un padre o un fratello di desaparecido. Non posso parlare della transidentità perché sono cisgender. Allora come facciamo a parlare delle cose? Ogni film diventerebbe un documentario. Oppure dovrei parlare solo di me stesso, ma io non è che sono così interessante.

Karla: Immagina che noia un film solo con Jacques Audiard, cantato poi… 

Jacques: Meglio di no [ride].

Meglio Emilia Pérez, che vi aspetta al cinema dal 9 gennaio.

 

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.
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