Prigione e liberazione, privata e collettiva: Emilia Pérez unisce il tema della transidentità alla condizione di un Paese intero.
Immaginate il mondo di Narcos. Poi immaginate che il più terribile dei narcotrafficanti messicani sia in realtà una donna, tenuta in ostaggio e prigioniera di un corpo (e soprattutto una vita) che non sente appartenerle. Alcuni diranno che la vita se l’è scelta, ma forse non è esattamente così. Ricordo per esempio quella battuta de Il buono, il brutto, il cattivo: “Dalle nostre parti se vuoi campare o fai il prete o fai il bandito”. Oppure quell’altra di The Departed: “Quando avevo la tua età, i preti ci dicevano che potevamo diventare poliziotti o criminali”. Cito questi due film apparentemente lontani perché improntare fin da subito il discorso su Emilia Pérez sotto la lente del cinema di genere, e non di un cinema d’inchiesta o documentaristico, mi sembra precipuo.
Sia come sia, la suddetta intraprende un percorso di affermazione di genere per cambiare corpo e, soprattutto, attraverso questo ma non solo attraverso questo, vita. Il tutto raccontato, appunto, in un film pienamente di genere o piuttosto multi-genere, che guarda al gangster, al crime e poi anche ai film musicali, utilizzando il canto come un sibilo di rabbia che diventa coro di emancipazione collettiva. Già solo da queste poche premesse, Emilia Pérez appare come un’idea nuova, elettrizzante, una miscellanea di temi e ambientazioni che mai erano stati messi in dialogo.
Ma in questo dialogo non c’era solo il puro gusto di divertirsi, da parte del regista Jacques Audiard. Di inventarsi, appunto, qualcosa che nessuno si era mai inventato. In questo dialogo, che unisce la rappresentazione della transidentità alla condizione di tutto il Messico, c’è una metafora molto precisa, che racchiude tutto il senso del film.
Prima protagonista del film è Rita Moreno Castro, interpretata da una eccezionale Zoe Saldaña che si è appena portata a casa un Golden Globe per questo ruolo – il film ne otterrà quattro in totale, fra cui Miglior Film e Miglior Film Straniero, è la prima volta in 25 anni. Lei veste i panni di un’avvocata della difesa frustrata dal suo lavoro, dalla condizione del suo Paese e dal fatto di dover aiutare i criminali a farla franca. Verrà rapita e portata al cospetto di Manitas del Monte, el Jefe de Jefes che ha sconfitto l’Alleanza del Norte e guida ora il più grande Cartello di tutto il narcotraffico messicano.
Manitas del Monte ha una moglie, Jessie (Selena Gomez) e due bellissimi figli, ha ricchezze e potere sproporzionati e di fatto controlla le più alte cariche di governo attraverso un’intromissione nelle recenti elezioni. Ha tutto ciò che desidera, meno l’unica che desidera veramente: essere ciò che è sempre stata. Con l’aiuto di Rita farà perdere le sue tracce, si farà passare per morta e intraprenderà un percorso di affermazione di genere, tenuto all’oscuro persino dalla sua famiglia. Ora è Emilia Pérez, facoltosa imprenditrice dal misterioso passato, ma cambiare il corpo non è sufficiente e sarà il segnale di dover cambiare anche la propria anima, ritrovandosi dal lato delle sue stesse vittime e tentando – da ribadire: tentando – di riparare alle sue colpe. Che tali rimangono, non vengono cancellate.
Ora la domanda: perché ambientare tutto questo in Messico? Perché questa scelta cambia tutto? Jacques Audiard vi risponderà semplicemente, come ha fatto nel corso di un’intervista, che l’idea gli è venuta leggendo il romanzo Écoute di di Boris Razon, in cui un narcotrafficante vuole intraprendere il percorso di affermazione di genere. Questa sottotrama non procede oltre, ma lui, incuriosito da questa giustapposizione, ha voluto svilupparla in un film intero. Lui che, non dobbiamo dimenticarlo, è sempre stato regista di genere, nel senso che ha sempre usato il genere per portare discorsi politici e d’attualità: il suo Il profeta, Premio Speciale della Giuria a Cannes 62, guarda al mondo dell’Islam attraverso un film d’azione; il successivo Dheepan, Palma d’Oro a Cannes 68, è un thriller ambientato nelle banlieue parigine.
Ma non c’era solo la curiosità. Collocare un percorso di affermazione di genere nel Messico preso d’assedio dai Cartelli è la chiara metafora di una condizione di prigionia cui fa seguito un processo di liberazione. Il punto è che la vicenda di Emilia Pérez e quella del Messico sono molto più simili di quanto gli uni o gli altri più sensibili ai rispettivi temi vogliano ammettere. Il punto è lo sforzo mentale di accettare che qualcuno possa sentirsi prigioniero di un corpo tanto quanto di una società. Perché in realtà non si è prigionieri del corpo, questo i discorsi sulla transidentità dovrebbero averlo chiarito da tempo: non si è prigionieri di un corpo, ma della società che quei corpi giudica e su cui detta legge. Quindi si è entrambi prigionieri della stessa società, seppur in modi e con conseguenze diversissime. È interessante che “prigione” sia una parola che non viene mai pronunciata in tutto il corso di Emilia Pérez, dal momento che è in realtà il concetto madre sotteso a tutto il film. Di vite costrette, assediate, che non si sono scelte.
Si potrebbe pensare allora – e questa è una delle critiche che sono state sollevate oltreoceano – che Emilia Pérez e quelle che un tempo furono sue vittime siano messe sullo stesso piano. Che da un lato ci sia una colpevolizzazzione o approssimazione nel percorso di Emilia Pérez, e dall’altro una sottostima della condizione del popolo messicano. Che si scontenti tutti insomma. Diciamo che già il contributo creativo fondamentale dato dalla protagonista Karla Sofía Gascón a Jacques Audiard e il fatto che questo sia un film dichiaratamente di genere, e non un documentario sui desaparecidos, dovrebbero rispondere a queste obiezioni. Ma comunque: Emilia Pérez non è mai veramente un’eroina, né scevra da contraddizioni. Questo appare chiaro per tutto il corso del film ed è stato ribadito più volte nelle molte interviste tenute da Audiard e Gascón.
Emilia Pérez la fece una scelta, nel suo passato: una scelta di reazione, di chi vedendosi tenuta in ostaggio dalla società reagì estendendo quella prigione alla società tutta, di chi reagisce alla violenza che subisce con una violenza moltiplicata. In ultima analisi, Emilia Pérez e le sue vittime non sono affatto messe sullo stesso piano, non c’è giustificazione né possibilità di redenzione, di emendare i propri peccati come se questi dipendessero dal genere e non da molti altri fattori. Non è prima “cattiva” e poi “buona”, non sono queste le parole su cui focalizzarsi, ma piuttosto quelle di “vittima” e “carnefice”, detenuto e secondino, accettando il fatto che una persona possa essere o essere stata, al contempo, entrambe le cose. Perché, appunto, una persona non è ridotta al suo corpo, in un’errata concezione binaria del mondo, ma alla sua complessità.
Attraverso la sua conversione, Emilia Pérez può solo tentare, nel tempo che le è concesso, di “scusarsi” con gli stessi a cui aveva fatto quello che era stato fatto a lei. Ma non le è concesso più di questo. Manitas del Monte ed Emilia Pérez rappresentano rispettivamente i concetti di prigione e liberazione, estesi dal privato al collettivo: se Manitas del Monte aveva esteso la prigionia di cui era schiavo a tutto il Messico, con una nuova consapevolezza Emilia Pérez potrà estendere il percorso di affermazione e liberazione, per lei tanto prezioso, al Messico tutto. In questo senso va interpretata la frase fondamentale intorno alla quale è stato costruito tutto il film: “Se cambia il corpo, cambia l’anima. Se cambia l’anima, cambia la cultura. Se cambia la cultura, cambia la società”. E cioè la virtuosità di questo circolo: una volta cambiata la società, si estenderà la possibilità, per i corpi, di cambiare anch’essi.
Emilia Pérez è un film incredibilmente complesso e stratificato, che queste poche risposte non potranno né avranno comunque esaurito. A questo film va il merito, come a Emilia Pérez, di avere quantomeno tentato (e, secondo l’opinione di chi scrive, essere riuscito) in questo atto di coraggio, coraggio che si ritrova nella sua totale libertà d’impostazione di genere e visiva, ma anche nel modo in cui ha provato a parlare di questi temi lungo una via che non era mai stata percorsa. E questo, se ci limitiamo anche solo al mondo del cinema, è una ricchezza.
E proprio al cinema, già dal 9 gennaio, vi aspetta Emilia Pérez.