Basta un’inquadratura per riconoscere un film di Aki Kaurismäki. Anche in Foglie al vento, dal 21 dicembre al cinema, il tocco del regista finlandese è inconfondibile.
Ci sono registi per cui ti basta un’inquadratura per dire: “Questo è un film di…”. Inizia Foglie al vento (nelle sale dal 21 dicembre con Lucky Red) ed è esattamente così: “Questo è un film di Aki Kaurismäki”. Aki il finlandese delle meraviglie, Aki con i suoi colori, i suoi attori dalle facce sghembe, i vestiti che sembrano presi da un mercatino vintage in una fredda domenica mattina nel profondo Nord. Aki per cui, appunto, basta un’inquadratura e sei nel suo mondo immutabile ma sempre diverso, collocato in un punto impreciso e imprecisato del tempo e della Storia eppure sempre qui, nel nostro presente (e l’eco della guerra che sentiamo dalla radio ne è la prova).
Foglie al vento è la storia di Ansa (Alma Pöysti) e Holappa (Jussi Vatanen), lavoratori prolet nella precarietà di oggi, lei prima commessa in un supermercato e poi aiuto cuoca, lui operaio sempre attaccato alla bottiglia. È la (sotto)trama del lavoro che percorre l’opera di Kaurismäki dai tempi di Ombre in paradiso, era il 1986, ancora una commessa di supermercato e un netturbino; e poi La fiammiferaia, 1989, anche lì un’operaia in una fabbrica di fiammiferi che, letteralmente, alla fine faceva bruciare tutto. E, tra prima e dopo, Ariel (1988), Nuvole in viaggio (1996), Miracolo a Le Havre (2011), che inquadrava il lavoro dentro le nuove impossibili integrazioni dell’Europa di oggi. Ma ci sono anche, in Foglie al vento, i lampi (letteralmente) di Le luci della sera (2006), anzi della notte; e dell’Uomo senza passato (2002), qui senza passato (e senza presente) sono parimenti uomini e donne, con le loro storie di solitudini che inevitabilmente si incrociano sulla stessa strada, forse ne faranno un pezzo insieme, forse invece a quella solitudine sono destinati per sempre.
Le luci, i colori, i vestiti, i cagnetti che spuntano sempre, a un certo punto di questi viaggi da fermi. Da questo si riconosce un film di Kaurismäki anche solo grazie a un’inquadratura, dicevo prima. E però anche dalle musiche, dalle canzoni, dai detour sonori di ogni suo film. In Foglie al vento, la musica gioca un ruolo ancora più cruciale. L’incontro tra l’uomo e la donna senza passato avviene in un karaoke bar che sembra, anche lui, sospeso nel tempo, in un punto distopico della Storia per cui ci sembra, allo stesso tempo, di essere qui e ora ma anche in un passato di nenie senza tempo, refrain da balera (spero che L’autunno sotto l’albero di sorbo diventi una hit in tutta Europa), schitarrate rock, tanghi argentini (di Carlos Gardel, e chi se no), mambi italiani (sì, quel Mambo italiano). Ma anche – nei momenti in cui la storia dei due amanti sembra fatalmente condannata a non sbocciare mai – la classica già usata per la Vita da bohème (1992): qui ci sono, invece, le serenate di Schubert e la Sinfonia n. 6 di Čajkovskij, come contrappunto e controcanto all’anima romantico-punk di questa storia. E, ovviamente, le Foglie morte col testo di Prévert, però tradotto in finlandese, in quel sincretismo culturale e pop che è cifra, tra le altre, dell’autore.
Kaurismäki fa con la musica quello che fa con il cinema, in un gran mix di omaggi, riferimenti, passioni del regista stesso. I morti non muoiono di Jim Jarmusch è il film che i due protagonisti vanno a vedere al cinema, ma ci sono anche, disseminati qua e là, i poster di Rocco e i suoi fratelli di Visconti, Il disprezzo di Godard, vecchi B-movie di mostri e dinosauri, il Chaplin dello struggente finale, e Breve incontro di David Lean, che è la sintesi perfetta anche del film che abbiamo davanti ai nostri occhi adesso.
Fino al post-rock über indie delle Maustetytöt, ovvero le sorelle Anna e Kaisa Karjalainen, che arrivano verso la fine di Foglie al vento a fare, sul palco di quello stesso bar, una sorta di riassunto anche estetico di quello che abbiamo visto fino a quel momento: come dicevo, convivono classicità e modernità, vintage e contemporaneo, démodé e futuro. “Tu mi piaci, ma è me che non sopporto”, cantano le due sorelle accompagnate dalla tastiera e dalla chitarra elettrica, e forse in quel verso c’è tutta la storia che abbiamo appena visto e che forse, chissà, è destinata a durare per sempre. C’è, forse, ancora una luce in fondo al cammino, a illuminare la strada di Ansa e Holappa.