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Intervista
Gli indesiderabili. Intervista all’architetto Amedeo Schiattarella

Periferia, riqualificazione, gentrificazione. Una conversazione con l’architetto Amedeo Schiattarella per comprendere al meglio il grande tema affrontato e sviluppato da Ladj Ly ne Gli indesiderabili.

Di Margherita Bordino*

Dopo I miserabili, il regista porta sul grande schermo una nuova e forte storia che racconta, in modo lucido e anche drammatico, la società e le città che viviamo. Quella che vediamo nel film è una periferia inventata ma esistente, è francese, ma non è per nulla diversa dalle nostre o da quelle di altri paesi. 

Ladj Ly con Bâtiment 5, questo il titolo originale, riferimento al “palazzaccio” in cui vivono immigrati di prima, seconda e terza generazione, compie un ulteriore passo da autore cinematografico e politico mettendo in scena, ancora una volta, una potente cifra emotiva.

Gli indesiderabili mostra Haby (Anta Diaw), una giovane molto impegnata nella vita della comunità, che presta servizio nell’archivio del municipio. E’ lei a scoprire dell’approvazione di un progetto di riqualificazione – in questo caso di effettiva demolizione – che riguarda il suo quartiere. Ad aver varato questo progetto è Pierre Forges (Alexis Manenti), sindaco prescelto dal consiglio comunale all’indomani della morte del suo predecessore. Da questo momento in poi Haby, senza alcuna remora e con molta decisione oltre che dedizione, inizia una vera battaglia. L’obiettivo? Difendere in ogni modo la comunità in cui è cresciuta.

Quale è stata la sua prima riflessione dopo la visione de Gli indesiderabili?

È chiaramente un film che in qualche modo ti costringe a riflettere su alcune questioni che riguardano il contemporaneo. È come se l’umanità avesse smarrito un po’ il senso delle cose. Parlando di città, la città è il luogo della comunità, della civitas, il luogo dell’incontro, dello scambio che vive essenzialmente di relazioni umane.

In senso più generale, quale città stiamo costruendo oggi?

Una città che è estranea, non attenta agli uomini come se fosse programmata con troppa razionalità e poca partecipazione emotiva. In Gli indesiderabili mi ha infatti colpito moltissimo questo senso di amarezza. Spesso mi chiedo se io stesso sono in grado di dare una risposta o di essere utile a superare questa dimensione.

Come descriverebbe l’edificio 5, quindi l’enorme palazzo della periferia parigina, che muove le fila del film?

È uno dei tanti edifici delle periferie in qualche modo costruite per fini sociali. È un edificio senza nessuna qualità e che viene riconosciuto perchè ha un’identità, un numero che lo distingue dagli altri. Si tratta inoltre di un edificio che mostra chiari segni di ostilità… Mi ha colpito la scena del trasporto della bara per le scale: come a dire, neanche da morti si riesce a trovare un rapporto di pace con questo edificio. Alla fine c’è anche una sorta di moto di repulsione nei confronti dell’umanità perché dalle finestre vengono quasi vomitati i materassi. Si, è una specie di espulsione delle cose dell’uomo eppure, nonostante questo, chi ci vive cerca di trovare una propria dimensione, un proprio modo di utilizzarlo, di viverlo. In qualche modo lì si è radicato. 

Secondo lei rientra nell’esigenza dell’uomo il trovare un proprio modo di vivere le cose?

Si, il trovare una propria identità. E questo edificio, nonostante dichiara la sua evidente estraneità all’umanità, ha una dimensione che poi alla fine viene recuperata.

Gli indesiderabili, appunto, esplora le insidie che possono esserci dietro la “riqualificazione”, in questo caso delle periferie, ma anche la rabbia degli abitanti. La parola “riqualificazione” che valore ha?

È una parola punto. Spesso la usiamo per sentirci a posto, come soluzione, ma non è affatto così. Dovremmo trasformarla in “qualificazione”.

Quello che vediamo nel film è ciò che, ormai da qualche tempo, sta avvenendo anche in Italia?

Certo, e spesso perchè in queste riqualificazioni c’è una pianificazione poco maturata del senso di ciò che si va a fare. Spesso manca il senso di città inteso come senso degli spazi intermedi, ovvero di quegli spazi che sono tra gli edifici, non i parcheggi o i prati con l’alberello, ma luoghi in cui la gente va a vivere, incontrarsi, in cui esistono servizi. Questa dimensione della continuità tra esterno e interno sembra completamente scomparsa. E in queste operazioni c’è anche una colpa degli architetti che cercano di essere protagonisti, cioè di mostrare la propria intelligenza nascondendo invece l’incapacità di risolvere le cose in modo disciplinarmente poetico o enfatico. Vuol dire non stare attenti alle persone, alla vita, alla vita comune, cosa che per noi dovrebbe essere l’elemento centrale. Come architetti e come uomini noi dobbiamo cercare di raggiungere – e far raggiungere – la felicità, se è possibile, alla comunità. Poi naturalmente questo non sempre avviene, ma deve essere l’obiettivo.

Il punto di vista del film è quello di Haby, quindi una prospettiva femminile, in cui sono fondamentali la definizione di identità e appartenenza. La gentrificazione abbatte questi due principi?

Le donne hanno una maggiore sensibilità rispetto a certi temi ma non sono le sole, nel senso che questo tema dell’identità e dell’appartenenza è secondo me molto sottovalutato in termini di criticità e dramma che si sta determinando a livello globale. Rifletta su una questione: noi abbiamo città che sono sostanzialmente omologate, cioè abbiamo cancellato completamente il senso della diversità culturale che invece è un elemento fondamentale, è il sale della vita, la dialettica tra le diverse posizioni… Noi invece abbiamo cancellato tutto e lo stiamo facendo sempre di più e senza che la gente se ne accorga.

Naturalmente è molto più facile accorgersene se viene a mancare il verde, se abbiamo meno natura…

Si, in quel caso è più visibile. Non ci accorgiamo però che stiamo avendo meno cultura umana, meno ricchezza di espressione e questa è veramente una situazione devastante perché poi quando tu hai omologato le culture, tornare indietro è praticamente impossibile. Mi preoccupa molto a livello personale, perché è una prospettiva devastante che riguarda il tema della cultura, dei valori, della diversità.

Soprattutto quando si tratta di “riqualificazione” bisogna quindi fare attenzione all’identità locale per essere fedeli al luogo…

All’anima del luogo, certamente! Perché noi quando parliamo di “luogo” lo intendiamo sempre come un fatto fisico ma non è così. Gli elementi fondamentali di un luogo riguardano i valori di quella comunità, le sue tradizioni, il suo senso della vita, il suo modo di essere, di organizzarsi, di avere relazioni pubbliche. Nel futuro dobbiamo avere molto presente il senso delle radici, e questo si lega anche ad una riflessione più ampia che ha a che fare con l’accoglienza.

Quale è il futuro delle città, delle periferie? Da chi saranno abitate? Saranno città giovani e green?

Non riesco ad immaginare o a capire come sarà il futuro: è difficile dirlo. Di certo non credo che le nostre città saranno popolate da giovani in quanto siamo un’umanità che sta diventando sempre più vecchia. Riguardo alla natura, sì è fondamentale ma è anche vero che i centri storici italiani non erano green in precedenza, non lo sono mai stati e difficilmente lo saranno un domani. La soluzione non è il green ma è trovare il senso di città. Ritrovare quindi un senso di comunità che sempre più sta in città e sempre più ha bisogno di trovare nella città il modo di stare insieme, di avere possibilità di dialogo e di confronto. Questo è quello che mi auspico. Purtroppo le logiche che oggi guidano le grandi espansioni urbane sono logiche essenzialmente finanziarie quindi l’attenzione verso gli uomini viene sempre meno e con questo dobbiamo fare i conti oltre che trovare il modo di intervenire.

La logica finanziaria è anche ciò che crea una spaccatura e divisione tra centro e periferia.

E per questo motivo bisogna anche sottolineare che ne Gli indesiderabili c’è una presenza assenza, quella dell’altra città, cioè della città che vive una certa qualità ma che sta da un’altra parte, non si vede mai ma è aleggiante. Chi vive nella periferia è in quelle condizioni ma il resto della città ha tutta una serie di benefici e di altre cose che non esistono nelle zone di espansione.

Nella settima arte, quindi nel cinema, l’architettura occupa un posto di rilievo. A tal proposito, quali film si sente di consigliare?

Recentemente sono rimasto affascinato da due film, entrambi diretti da Wim Wenders. Il primo è Perfect Days, con queste piccole iconcine che sono i bagni pubblici, che vengono presentati e mostrati come veri monumenti per una funzione corporale; il secondo è Anselm e qui c’è proprio la struttura dell’immagine che è costruita come se fosse un’opera di architettura, come se fosse una facciata, con gli equilibri delle cose, di ogni sua posizione e proporzione.

Possiamo quindi, infine, dire e ammettere che l’architettura è anche una filosofia umana?

Assolutamente si! Anzi, aggiungo che dovrebbe essere vista, a tutti gli effetti, come una disciplina al servizio degli interessi dell’uomo e dell’umanità quindi della comunità.

 

*Giornalista e autrice. Lavora tra editoria tradizionale, online e televisione, e in quello che fa l’ascolto, il confronto, la ricerca sono fondamentali. La appassiona e incuriosisce tutto ciò che è arte, cultura, intrattenimento. Che sia un’intervista, una live, un podcast o format tv le interessa raccontare e fare conoscere storie, percorsi, creazioni. Tra le sue collaborazioni ci sono Artribune, Cinecittà News Video e Luce Social Club (su Sky Arte).
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