Dopo I miserabili, Ladj Ly preannuncia una trilogia tematica dedicata alle periferie multietniche parigine: scopriamo Gli indesiderabili, dall’11 luglio al cinema.
Il cosiddetto cinéma de banlieue è un genere importantissimo in Francia. L’anno di inizio è riconosciuto nel 1995, quando L’Odio di Mathieu Kassovitz vince Miglior Regia al Festival di Cannes. Ma nell’ultimo ventennio questo genere cinematografico non è mai morto: nel 2004 è arrivata la versione action-distopica di Pierre Morel con Banlieue 13 e nel 2015 Jacques Audiard vinse la Palma d’Oro per Deephan – Una nuova vita. Un discrimine accomuna questi tre film pur nel loro estremo valore: sono tutti girati da registi bianchi.
Quindi, quando nel 2019 un giovane francese di seconda generazione debuttò alla regia di un lungometraggio con il primo film in grado di competere con L’Odio, sembrò il segnale di un radicalizzarsi, o piuttosto di un desiderio di tornare a raccontare certe tematiche e contesti sociali particolarmente disagiati. Dove, proprio parlando di radicalismo, non stupisce poi che certe frange di fondamentalismo islamico trovino terreno particolarmente fertile in Francia più che in altri Paesi europei. È una conseguenza.
Quel film era I miserabili (Les Misérables) e il suo regista Ladj Ly, che ora torna con un secondo film, in uscita dall’11 luglio distribuito nei cinema da Lucky Red, che non è già un sequel ma il secondo tassello di quella che potrebbe diventare una trilogia tematica sulle banlieue. Si intitola Gli indesiderabili (Les Indésirables) e racconta con estremo realismo tutto quanto abbiamo sbagliato e stiamo continuando a sbagliare.
Il cinéma de banlieue è facilmente traducibile come cinema delle o sulle periferie: banlieue in francese significa proprio periferia, non limitatamente a quella parigina, dei palazzoni delle case popolari e multietniche, che Kassovitz ci ha fatto scoprire nel ’95. Nonostante l’abitudine comune di associare Neorealismo e Nouvelle Vague a seconda che si parli di Italia o di Francia, è forse nel cinéma de banlieue che si ritrova il vero erede di un possibile neorealismo, quasi iperrealismo francese. Personaggi come quelli di Accattone, speculazioni edilizie come ne Le mani sulla città e ora anche ne Gli indesiderabili, ma anche un certo realismo documentarista riscontrato negli ultimi dei Fratelli Dardenne, si veda Tori e Lokita.
È un cinema potenzialmente ricchissimo, tanto è ricco e variegato il suo materiale umano. E che di volta in volta può essere raccontato dai vari punti di vista dei protagonisti coinvolti: gli ultimi, i miserabili, gli indesiderabili; la polizia; la politica. I miserabili poteva sembrare infatti L’Odio raccontato attraverso gli occhi di una pattuglia di polizia. Ne Gli Indesiderabili invece, ritroviamo tutte e tre le teste di questa baraonda (solo) apparentemente insolvibile. E che, baraonda, lo diventa ancor di più tanto più ci convinciamo che non si possa risolvere.
Haby Keita è una giovane immigrata di seconda generazione che vive in uno dei tanti palazzoni dei suburbi parigini, avviati a una (promessa, non mantenuta) riqualificazione. Lavora come volontaria in un’associazione per l’assegnazione degli appartamenti, ma quando il sindaco del suburbio cade vittima di un malore, il partito conservatore in carica gli fa succedere (senza passare per le elezioni anticipate) un volto nuovo, conciliante, non invischiato nelle irregolarità d’appalto e solo apparentemente restio alle pressanti responsabilità che seguiranno. In realtà si dimostrerà il più inadeguato e autoritario di tutti – spesso le due cose vanno a braccetto – e noncurante che tanto più cercherà di nascondere la polvere sotto il bel tappeto persiano, quanto più attizzerà il fuoco di una rivolta pronta a esplodere come polveriera.
Gli indesiderabili ha dalla sua molte scene dal valore simbolico, nei suoni e nelle scene. Già in apertura c’è tutto. Con un’aerea sui palazzoni in via di riqualificazione – rileggi: gentrificazione – con i martelli pneumatici che suonano come mitraglie, come l’avanzare di una pulizia etnica che passa per l’edilizia, per quelle tre paroline subdole, assistenzialiste e fintamente tutelanti con cui sempre si è trovata la scusa per sbattere famiglie fuori dalle loro case: “Messa in sicurezza”.
Sorvolato il quartiere, la cinepresa entra da una finestra dentro uno dei minuscoli appartamenti abitati da famiglie numerosissime – i movimenti di macchina in piano sequenza rimarranno uno degli aspetti tecnici più pregevoli di questo film, tanto da portare a chiedersi con quali mezzi siano stati realizzati visto il budget relativamente ridotto – e ci mostra una veglia funebre. Di lì a poco la bara dovrà essere calata giù per le scale: ma come si fa, in una tromba stretta come quella, senza ascensore che funzioni, senza luce, senza niente? Come si vive e come si muore nelle banlieue? O come dice proprio uno dei personaggi: “Come si può vivere e morire in un posto del genere?”. Siamo al limite.
Ciò che colpisce però del cinema di Ladj Ly è che nelle sue scene non c’è solo disagio, anche se lo spettatore tende a notare solo quello: c’è collaborazione, multiculturalismo, capacità di trasformare un inferno verticale a gironi in un esempio invidiabile di assistenza reciproca, indipendentemente dalle diverse provenienze, religioni e “colore” della pelle. Ciò che colpisce di questa scena è che a portare la bara siano un musulmano osservante, un malese cristiano, un sunnita e uno sciita magari, subito dopo una celebrazione funebre di fede non meglio identificabile. Scene che noi, presi dai nostri litigi fra condomini tutti di stessa fede e provenienza, ci sogniamo.
Forse scrivo così perché a me, il valore dell’intercultura, è stata insegnata fin da quando ero bambino. Quando i miei genitori mi iscrissero in uno di quelli che a Roma vengono chiamati asili dell’intercultura, dedicati all’infanzia immigrata e dove un italiano d’origine cresce “solo”, in realtà circondato e quindi arricchito da decine di bambini dalle mille nazionalità e culture. Se evidenzio questa distinzione, quindi, è più per chi legge, perché chi cresce così cresce proprio scevro da qualunque distinzione di sorta.
E questa è la prima postura coloniale che film come Gli indesiderabili mettono in luce, laddove la distanzia fra le colonie si è semplicemente ridotta – ora non sono più dall’altro lato del mare, ma semplicemente al limitare dei nostri quartieri centrali – ma il pregiudizio mai sopito: che si debba mantenere, noi e non “loro”, un ordine che persino in quel disagio “loro” riescono perfettamente a trovare da sé, in quei bastimenti da noi costruiti e che abbiamo persino il coraggio di chiamare quartieri.
Batiment 5, questo non a caso il titolo originale del nuovo film di Ladj Ly. In francese “batiment” significa semplicemente “edificio” ma non cade lontano, per assonanza, rispetto al nostro “bastimento”: un barcone, una nave che affonda (perché la stiamo affondando noi). E infatti stringe doppiamente il cuore la scena in cui Haby e famiglie devono abbandonare la nave tempo cinque minuti, portando con sé solo le cose più care, e gettando le altre dai terrazzi sperando di tornare a riprenderle poco dopo prima del passaggio della nettezza urbana.
L’altro termine su cui i miei genitori mi hanno sempre fatto riflettere, e che ha molto a che fare con i nuovi protagonisti-antagonisti presentati ne Gli indesiderabili, è quello di “forze dell’ordine”, e di quanto sia lontano dal suo reale significato. Mi hanno insegnato che non c’è niente di più distante da una “forza dell’ordine”, per esempio, da un reparto celere: non si tratta di fomentare odio nei confronti delle autorità, ma semplicemente di prendere atto e visione di ciò che avviene durante una carica, uno sfratto, una “evacuazione”. Ancora una volta vi assicuro, e basta vedere questo film per accorgersene, quanto di più distante ci possa essere da una gestione dell’ordine, nell’immediato e soprattutto nelle conseguenze.
Il mandante di questa mancata gestione dell’ordine: una politica – il terzo protagonista de Gli indesiderabili nella persona del neo-sindaco Pierre – sempre più difficile da riconoscere nei suoi atteggiamenti razzisti, inizialmente mascherati. Pierre ha come vice-sindaco Roger, un immigrato di seconda generazione; come primo lavoro fa il pediatra, uno di cui fidarsi insomma; si fa le foto con gli abitanti delle banlieue. Ma col passare del film si dimostra sempre più conservatore, razzista, vendicativo e incapace di assolvere il suo ruolo: appunto, mantenere l’ordine, sempre che si voglia credere a questa favola. Dirà persino al suo vice di non fare da finto Babbo Natale ai figli perché, testuali parole: “Potrebbero confondersi”.
Insomma, Gli indesiderabili è un film che potrebbe scuotervi, infastidirvi, ma forse è anche il caso che qualcosa riesca a farlo finalmente. Arriva al cinema dall’11 luglio, inserito in una rassegna più ampia di Circuito Cinema dal titolo “Buona la prima” e dedicata a opere prime e seconde di registi da tenere d’occhio: seguiranno Scrapper di Charlotte Regan (dal 18 luglio), Opponent di Milad Alami (dal 25 luglio), Reality di Tina Satter (dal 1 agosto), And Then We Danced di Levan Akin (dall’8 agosto). Gli indesiderabili è il primo appuntamento e il suo regista non ha più bisogno di essere tenuto d’occhio: ha già dimostrato, sta dimostrando e, auspicabilmente, continuerà a dimostrare, di avere più di qualcosa da dire, socialmente e cinematograficamente.