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I dannati
I Dannati e il cinema di Roberto Minervini

Con una regia tra fiction e documentario, Roberto Minervini crea un racconto di guerra riattualizzabile girato quasi “in presa diretta”.

Di Carlo Giuliano*

Com’è possibile girare un film che riprenda la Guerra di Secessione catturando i pensieri del soldato qualunque, lontano dalla dimensione delle grandi battaglie storicizzate che i resoconti dell’epoca hanno fatto arrivare fino a noi? In altre parole, come si può ricreare la sfera intimista di un contesto bellico e storico in cui i documentari, e il cinema stesso, non esistevano? Roberto Minervini ci è riuscito, compiendo quasi un viaggio nel tempo attraverso tecniche di regia e di gestione del set e degli attori che vivono tantissimo del suo precedente percorso autoriale, da sempre improntato a uno sguardo a metà tra fiction e documentario e con occhio specifico agli Stati Uniti.

Italiano di nascita, Minervini vive da anni tra Italia e USA e da anni disseziona la mentalità americana all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle. Normalmente ha sempre guardato all’attualità, con titoli quali Ferma il tuo cuore in affanno e Louisiana (The Other Side). Ma vi stupirà sapere che anche I Dannati è un film che guarda al passato, che sceglie la Guerra Civile Americana, per parlare proprio d’attualità. Della logica bellicista americana dall’11 settembre in poi. Ma con uno sguardo ancor più esteso, alle fallacie della logica bellicista tout court. Innanzitutto, la menzogna che esistano guerre giuste o un lato giusto da cui combatterle. Non solo non c’è, ma non c’è mai stato, nemmeno nel conflitto per eccellenza combattuto, abbiamo sempre creduto, in nome della giustizia e della libertà. 

Un film di guerra lontano dalla guerra

 La prime condizioni necessarie a creare un racconto di questo tipo, sono due: il silenzio e la visione prospettica, la distanza. Roberto Minervini li ottiene passando, innanzitutto, per una scelta di soggetto molto specifica. Siamo nella Guerra di Secessione, questo sì, più propriamente nel 1862, che coincide anche con l’anno d’inizio della Grande Corsa all’Oro nei territori del, non più vecchio, Vecchio West. Ed è proprio all’estremo Ovest che Minervini guarda, scegliendo come protagonisti della sua Guerra di Secessione non già i soldati direttamente coinvolti nelle grandi battaglie, negli scontri frontali. A raccontare quella logica ci aveva già pensato Sergio Leone con la potentissima parentesi di Aldo Giuffré ne Il Buono, il Brutto, Il Cattivo, e dopo quella è difficile fare altrettanto.

No, il contingente de I Dannati è il più lontano possibile dal rumore degli spari e delle cannonate, inviato nelle terre del Montana per esplorare e presidiare territori disabitati. Quindi sono lontani, quindi non hanno il fracasso in testa, e quindi sono lasciati liberi di pensare, letteralmente di ponderare su cosa l’abbia spinti ad arruolarsi e portati lì, se la loro causa sia davvero giusta. Per poi riportare quelle considerazioni a noi, allo spettatore che, si spera, non si era mai avuto dubbi su chi scegliere fra l’Unione e la Confederazione, fra chi combatteva per liberare gli schiavi e chi per tenerseli. I Dannati è insomma la dimostrazione diretta di come si possa, lavorando sulle condizioni di partenza, atmosferiche nel senso di atmosfera e ambientazione circostanti, trasformare un film di fiction in un vero e proprio documentario “in presa diretta”. 

Dalla finzione all’osservazione: il lavoro sul set

L’approccio di Minervini sul set de I Dannati è stato l’esatto opposto di quello che ci si potrebbe aspettare dal regista, o dallo sceneggiatore, di un film “di finzione”. Nel senso che nella fiction tutto è prestabilito, tutto è guidato, tutto è già scritto. Ma I Dannati aveva bisogno di un regista diverso: uno che facesse un passo indietro rispetto alla storia, e rispetto agli attori, per lasciare che fossero loro a parlare per sé stessi e guidarla verso direzioni inaspettate. Un documentario, appunto. 

Minervini spiega che molti dei momenti dell’intreccio sono nati da sé, dall’oggi al domani, frutto di quello che quei personaggi, messi davvero in un contesto del genere, avrebbero fatto. Non una sceneggiatura a guidare una finzione, ma la realtà stessa, costruita, ottenuta, a guidare il film. Si potrebbe pensare che l’operazione sia semplice, ma è in realtà frutto di un complesso artificio al fine di ottenere quell’impressione di naturalezza. Viene in mente l’immagine del bastone spezzato: se immergi un ramo dritto in acqua apparirà piegato, ma perché assuma invece una forma specifica, lo si dovrà spezzare in partenza. 

Minervini ha adoperato diversi escamotage. Un casting aperto, che ha coinvolto anche i locali e persino membri della Guardia Nazionale del Montana. Poi non li ha imbeccati, non gli ha fornito la sua visione della guerra che loro avrebbero dovuto recitare, non ha nemmeno richiesto loro di informarsi sulla Guerra di Secessione. Ha semplicemente, come spiega in un’intervista con Dennis Lim, “allestito un campo, mi sono assicurato che ci fossero le provviste e li ho lasciati da soli a capire cosa fare dell’esperienza e del processo, il che credo abbia provocato in loro uno shock emotivo”. Processo che li ha portati non già a interpretare dei soldati, ma a ragionare a viva voce come un soldato avrebbe ragionato in quel contesto, sulla base delle loro stesse esperienze personali.

I Dannati è un film che, attraverso scelte registiche molto innovative e apparentemente controintuitive, ha ricreato le condizioni della Guerra di Secessione più di 150 anni dopo. E poi ne ha catturato il risultato in presa diretta. In un certo senso, I Dannati è un film di fiction nell’allestimento, e un film documentario nel risultato.

La scena della battaglia 

Perché, però, tutto quanto il processo non fosse vanificato, era importante che anche quella che in molti potrebbero considerare la scena madre de I Dannati, quella della battaglia, fosse girata in modo completamente diverso rispetto al quale siamo stati abituati. Non senza pathos, ma con un ritmo quasi anticlimatico. In cui l’adrenalina non è ricercata e inoculata in chi guarda, ma semplicemente un effetto naturale (e non il più importante, non il più pregno di senso) di una ripresa ad altezza d’uomo e di proiettile.

La scena di battaglia de I Dannati arriva all’improvviso, senza alcuna avvisaglia, senza musiche ad aumentare tensione e drammatizzazione. Arriva cioè, come il primo caduto, esattamente come deve essersi sentito qualunque soldato catapultato all’improvviso nel mezzo di una battaglia non preannunciata se non dal primo fischio di proiettile sopra la propria testa. Sempre per rimanere nel tecnico, è un po’ l’escamotage opposto a quello della cosiddetta “ironia” in senso drammaturgico. Una messa in scena cioè, che permetta allo spettatore di sapere qualcosa in anticipo o in più rispetto al personaggio che sta vivendo la scena. Per esempio, mostrare movimenti del nemico tra i cespugli prima che il personaggio in scena possa mangiare la foglia. Lo spettatore sa una cosa in più: che la battaglia sta arrivando, per lui non è una sorpresa. E il fine è quello di un gioco di tensione, quella che Hitchcock chiamava suspense con l’immagine eloquente della bomba sotto il tavolo.

Ne I Dannati, la bomba sotto il tavolo non è mostrata finché non esplode e lo spettatore subisce lo stesso identico shock del soldato. Il nemico, le caratteristiche giubbe color grigio-beige del lato confederato, non le vedremo mai. Solo lampi di fucile in mezzo ai cespugli, e l’unica è sparare pochi centimetri più in alto di quei lampi, e sperare di non essere colpiti prima di riuscirci. Proprio nel non mostrarci un nemico in carne e ossa, I Dannati elimina la possibilità di mettere a fuoco un contrasto netto, la possibilità stessa di mettere a fuoco alcunché. Ci dice che in guerra non ci sono due fronti, uno dalla parte giusta e l’altro da quella sbagliata. Ma solo due fucili che sparano; e dietro quei fucili semplicemente due uomini; e dentro quegli uomini, presto o tardi, due fredde pallottole. 

 

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.
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