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Wim Wenders
I documentari di Wim Wenders, il cinema che somma le arti

La forma documentaristica accompagna il cinema di Wim Wenders dal 1980 e da allora partorisce grandi film, l’ultimo dei quali è Anselm.

Di Carlo Giuliano*

Wim Wenders è uno dei più grandi registi tedeschi della Storia del Cinema. Questo è un fatto. Assieme a Fassbinder ed Herzog è stato massimo esponente di quella rinascita della seconda metà del ‘900 nota come Nuovo Cinema Tedesco, firmando capolavori come Alice nelle città e Il cielo sopra Berlino; viaggiando in America con L’amico americano e Paris, Texas; in generale raccogliendo premi in tutto il mondo. 

Ma al fianco della produzione di finzione c’è un’altra produzione altrettanto nota, parallela, necessaria ad arricchire e approfondire le origini o preparare ossessioni di là da venire nel cinema di Wenders, che è quella documentaristica.  

Quando pensiamo al cinema pensiamo a qualcosa di libero e quando pensiamo al documentario tendiamo a pensare a qualcosa di accademico, delimitato. Wenders ci insegna invece che il documentario è pura libertà di contaminazione e proprio questo concetto della delimitazione torna fondamentale nel suo ultimo documentario in uscita dal 30 aprile: Anselm.

Prima di arrivarci, è interessante ripercorrere alcuni dei documentari più riusciti di Wenders, che partono nel 1980 da quella straziante lettera d’amore e di preparazione a lutto che fu Lampi sull’acqua – Nick’s Movie (dedicato all’amico regista Nicholas Ray, all’epoca malato terminale), per arrivare al più recente Papa Francesco – Un uomo di parola del 2018. 

Ripercorrendoli, ci si accorge di un fil-rouge che sembra voler dire qualcosa della poetica di Wenders e del cinema tutto. Perché in ciascuno Wenders si è lasciato contaminare verso diverse direzioni geografiche e traiettorie artistiche interdisciplinari. Come a dire che se il cinema è la somma di tutte le arti, servirà un documentario per raccontare di volta in volta ciascuna di quelle arti: fotografia, musica, teatro, danza, coreografia. E ovviamente di nuovo cinema, quello che l’ha ispirato.

Da Tokyo-Ga a I fratelli Skladanowsky

Il primo grande documentario è sicuramente Tokyo-Ga, del 1985. Wenders attacca fin da subito con la sua più grande passione: un altro regista, Yasujirō Ozu, fortemente omaggiato anche nell’ultimo Perfect Days. Con Tokyo-Ga, Wenders si dimostra da subito un tedesco atipico, qualcuno che se sogna al futuro guarda all’America; ma se ricorda al passato, sogna di aver vissuto nel corpo di un giapponese. E quel giapponese è Ozu.

In Tokyo-Ga si ritrova già una struttura narrativa dualistica che spesso sarà propria dei documentari di Wenders. Da un lato l’omaggio diretto al regista, attraverso archivi e testimonianze di coloro che ci lavorarono. Dall’altro la moderna Tokyo, con la sua frenesia, i suoi skyline, i suoi cantieri sempre in operosa costruzione. Wenders parla un po’ per contrasto, mostra il mondo che c’è per far montare la nostalgia verso quello che non c’è più. Come a dire: “Si potrebbe ancora fare un film di Ozu, oggi?”. Quasi quarant’anni dopo, coi tempi in controtempo di Perfect Days, risponderà che sì, si poteva fare.

Tokyo-Ga è per metà un In the Mood for Love in cui Wenders racconta del primigenio amore che non ha mai potuto incontrare, per altra metà ha il sapore critico-satirico (ma mai irrispettoso) verso il mito ottimistico, pubblicitario e incrollabile riposto del modello del salary man che sente tanto distante, da quel giapponese da cui si reincarnò.

Ma Wenders sa anche di essere tedesco, che le sue radici sono nel cinema tedesco, e sa anche che senza qualcuno che dopo la cinepresa avesse inventato anche il proiettore, non solo i suoi film, ma i film di chiunque, non li avrebbe mai potuti vedere nessuno. Così nasce I fratelli Skladanowsky del 1995.

Metà intervista in memoria di coloro che inventarono, tecnicamente, il primo modello di proiettore (poi superati dal cinematografo dei Lumière), metà fiction che ricrea la vita di uno dei due fratelli interpretato da Udo Kier, il documentario è un nuovo esempio degli esperimenti linguistici di questa produzione wendersiana. In che modo? Girando due film in uno, laddove il secondo, muto e in bianco e nero, è una sorta di riproduzione di un film dell’epoca degli Skladanowsky.

Da Appunti di viaggio su moda e città a Pina

La seconda giustapposizione interessante da fare, su documentari realizzati a distanza di anni, è quella fra Appunti di viaggio su moda e città e Pina. Di nuovo, Wenders viaggia in Giappone per tornare poi in Germania. Nel primo, commissionatogli nel 1989 dal Centre Pompidou di Parigi – altra grande capacità di Wenders, questa di trasformare le commissioni in qualcosa di effettivamente vibrante (sempre ripensando al fatto che Perfect Days nasce da un documentario su commissione del Tokyo Toilet Project, la compagnia di WC pubblici della città) – il regista riflette con lo stilista Yohji Yamamoto sul rapporto fra moda e cinema. Wenders guarda alla moda come a una nuova arte da prendere in considerazione se si vuole parlare di cinema. Ne parla a tutti gli effetti usando termini che sono propri del cinema. 

E poi, nel 2011, fa un processo simile con l’arte della coreografia nel teatrodanza, attraverso il lavoro della grande coreografa tedesca Pina Bausch che era allora deceduta da un paio d’anni. In questi documentari Wenders guarda ad arti cosiddette “raffinate” o quantomeno, meno nazional-popolari, nel senso che il pubblico non pensa immediatamente all’importanza di queste nel cinema quando si ritrova davanti a uno schermo. Wenders ne è consapevole. In tutti questi documentari, mostra la riconoscenza dovuta da chi sa di essere sempre debitore. Con Pina poi, si fa spazio questa atipica importanza riconosciuta da Wenders, persino e soprattutto nel documentario, al formato 3D, come unico in grado di far “vedere così tanto”.

Da Buena Vista Social Club a Il sale della terra 

Germania, America, Giappone. Ma Wenders è stato anche in America Centrale e del Sud. La prima volta omaggiando una nuova arte. La seconda, lanciando anche un allarme. Buena Vista Social Club, uscito nel 1999 alla fine del millennio, diventerà (anche inaspettatamente) uno dei suoi documentari di maggior fortuna e successo commerciale. Oggi le musiche dell’omonimo gruppo di son cubano sono note a chiunque: nomi come Compay Segundo e Ibrahim Ferrer, la canzone Chan Chan o quella copertina in penombra fra sigari fumanti e macchine d’epoca nelle strade de L’Avana. Ma probabilmente, nel far conoscere tutto questo due anni dopo quell’album immortale del ’97, il documentario di Wenders ha avuto un ruolo e oggi è conservato nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. 

L’ultimo grande capolavoro fra i documentari è del 2014, Il sale della terra, sull’opera (fotografica e ambientalista, di chi non scatta soltanto ma si attiva per cambiare le cose) del fotografo Sebastião Salgado. Di nuovo, una nuova arte da ricordare: il cinema è fotografia. Ma al fianco di questo i viaggi di Salgado attraverso le guerre, la miseria e il capitale umano in giro per il mondo. Attraverso la lente di Wenders, Salgado ricorda un moderno Cousteau, il leggendario esploratore (e a sua volta documentarista) dei mari che, a forza di documentarli, si era accorto che stavano morendo per l’inquinamento globale. Primo a lanciare l’allarme, primo ad attivarsi per cambiare le cose. Lo stesso farà Salgado, assieme alla moglie, con la fondazione dell’Instituto Terra, un progetto dall’efficacia apparentemente impossibile che portò invece al rinverdimento di ampie fette della Foresta Atlantica in Brasile. Un progetto questo che, con quanto continua ad avvenire in termini di deforestazione nella Foresta Amazzonica e nel resto del mondo, ha un valore inestimabile: dimostra che il disastro è reversibile. Almeno, ancora per un po’.

E infine arriva Anselm

E infine arriva Anselm e non dovete far altro che scoprirlo in sala, dal 30 aprile. Wenders torna al formato 3D (in risoluzione 6K) per dare spazio a una nuova/vecchia arte, la prima di tutte: quella pittorica e scultorea, nella persona di Anselm Kiefer, uno degli artisti più controversi del ‘900.

Filosofia, storia tedesca contemporanea, da Adolf Hitler a Martin Heidegger: in Anselm converge tutto il senso di colpa del popolo tedesco per un disastro umano, quello del nazionalsocialismo, da cui nessuno si può chiamare fuori. 

Wenders dialoga qui con un altro sé, lui che era nato appena dopo la fine della guerra (il 14 agosto 1945) e Kiefer appena prima (l’8 marzo 1945). È l’incontro fra due menti che si sono scelti arti diverse, per dire il più delle volte cose diverse, ma consci di condividere fronti e traiettorie comuni e doverle far dialogare, come in un grande pensatoio, un grande atelier, una grande mente artistica collettiva.

E anche qui, ancora una volta, nel linguaggio ma non solo in quello, Wenders sperimenta. Raccoglie molteplici istanze in un unico discorso. Perché, parafrasando da una frase che troverete in Anselm: “Quando un film non è delimitato da una singola storia quadrata, allora diventa un documentario”.

 

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.
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