Con E la festa continua!, dall’11 aprile al cinema, Robert Guédiguian ci invita ancora una volta a partecipare alle vite dei suoi personaggi.
Alle feste si invitano gli amici. E le feste migliori sono quelle nelle quali gli invitati si sentono a casa. Robert Guédiguian ha costruito un cinema che lo spettatore, di film in film, ha imparato a conoscere. Ogni opera diventa un invito a stare con lui e con loro. Perché nel suo cinema si trovano quasi sempre gli stessi attori, chiamati a interpretare ruoli che hanno a che fare con l’essere persone, più che personaggi. «Arianne Ascaride, madre-moglie-amica-amante, indomita combattente, ingenua e audace, ironica e protettiva; Gérard Meylan, eroe per caso, focoso, oscuro, massiccio, tormentato; Jean-Pierre Darroussin, fragile e duro, mutevole nell’aspetto e nello spirito, ora fanciullo, ora adulto disincantato e dolente», scriveva Luciano Barisone nella presentazione della retrospettiva dedicata al regista di Marsiglia al 16esimo Festival Giovani di Torino del 1998.
Se i protagonisti principali delle storie scritte nella prima parte di carriera assieme allo sceneggiatore Jean-Louis Milesi e nelle ultime opere con Serge Valletti, riguardavano principalmente Ascaride, Meylan e Darroussin, ora a loro si affiancano volti nuovi, per arricchire gli intrecci, aggiungendo nuovi ruoli spesso capaci di mettere in scacco la generazione di chi li ha preceduti.
La casa di queste storie è quasi sempre Marsiglia, il cuore spesso è il quartiere L’Estaque, e dalle finestre molte volte si vede il mare, il Mediterraneo crocevia di migrazioni diventato involontariamente uno scenario per raccontare un mondo fatto di disuguaglianze inaccettabili. Tutto scorre e se la festa continua è anche perché c’è della musica, spesso parte integrante del racconto. E in questo caso possiamo ascoltare le parole di Aznavour che chiede di essere “portato ai confini della Terra” perché gli “sembra che la miseria sarebbe meno dolorosa al sole”. (Emmenez-moi. 1968).
«Il posto di Guédiguian sembra essere sempre -fra-, all’incrocio di un meticciato generale che mescola comunismo e cristianesimo, Brecht e Pagnol, Pasolini e Fassbinder, il bistrot e il vicolo, la famiglia e gli amici, il mare e la fabbrica, i personaggi e gli uomini, le generazioni presenti e la memoria del passato. Un continuo andare e venire, che ha a che vedere con i flussi e riflussi economici, ma anche con le pulsioni del cuore, con i corsi e i ricorsi della Storia» (1).
E la festa continua! inizia con il ricordo di una tragedia vicina. Nel quartiere L’Estaque di Marsiglia il 5 Novembre del 2018 crollano due palazzine.
Ora lì c’è un vuoto che Guédiguian inquadra più volte, come una boa narrativa per non farci perdere la rotta del suo discorso.
Orientando la sguardo del presente con un occhio al passato.
Accanto a quella ferita di cemento c’è una piazza, al centro, un grande monumento con il volto di Omero poeta che per primo ha raccontato la guerra, il viaggio e l’esilio. Lo scrittore cieco che, come viene ricordato: «non ha visto niente, ma ha udito tutto». E che ora ascolta le esistenze delle persone accanto a lui. Tra queste vite c’è quella di Rosa (in memoria di Rosa Luxemburg), in corsa per l’elezione a sindaco di Marsiglia, suo fratello Antonio (come Antonio Gramsci) tassista e ultimo comunista in città come gli ricorda la sorella, e poi i figli Minas e Sarkis, quest’ultimo innamorato di Alice un’attrice animata dalle migliori intenzioni nel voler portare l’arte tra la gente. Accanto a lei, da pochi giorni, è arrivato in città suo padre Henri, che con un colpo di fulmine si innamorerà, ricambiato, di Rosa.
Più che la messa in scena di una trama quello che viene raccontato è un mondo, un nido nel quale queste vite si muovono su traiettorie vicine, che il regista tiene strette in una sorta di affettuoso abbraccio.
E la festa continua! conțiene in sé gran parte della filmografia marsigliese del regista. E stando ai titoli più recenti, sembra continuamente nutrirsi di storie e caratteri già rappresentati, precisandoli, arricchendoli, qualche volta anche contraddicendoli. In questo film c’è una giovane artista, come ne La casa sul mare c’era un’attrice matura. C’è il confronto scontro tra le generazioni sia ne Le nevi del Kilimangiaro, dove gli adulti si chiedevano se il disagio e le difficoltà dei giovani fossero in qualche modo la conseguenza di una certa stanchezza nella loro lotta di classe, sia in Gloria mundi dove il ritratto dei figli era dolente, impietoso, quasi il regista volesse dire a questi ragazzi che se le cose vanno male, è anche perché chi si sta affacciando alla vita vera lo fa senza avere uno straccio di ideale. Ma i richiami al suo cinema sono continui. Si trovano nella casa di Antonio dove sul terrazzo affacciato sul mare c’è una gabbia di pappagalli che ricorda la casa di Marco (sempre Meylan) di Marie Jo e i suoi due amori, nella quale c’era la stessa vista e la stessa voliera.
E a casa di Rosa c’è addirittura il manifesto di un suo film: Le Voyage en Arménie.
In questo film tutti i lavori precedenti trovano richiamo e sintesi. E le voci dei personaggi si fondono in armonia, come il coro che dirige Alice.
In questa coralità è forse proprio Alice il personaggio più ricco di suggestioni capaci di dare al film spinta e direzione.
Se da una parte la vicenda legata alla sfida politica di Rosa si esaurisce dentro la sua storia d’amore dai colori quasi adolescenziali, quella di Alice è tutta in divenire. È lei che si prodiga in prima persona nella sua attività sociale. È lei che riuscirà a trasformare un suo dramma privato (che qui non sveliamo) in una nuova prospettiva di vita. In questa sua elaborazione chiederà aiuto a chi è più grande, ma sarà lei a farsi carico di una decisione. Ricordando che gli adulti possono essere ancora capaci di una qualche forma di saggezza, ma sono i figli ad essere responsabili di quello che verrà.
«Se vedete qualcuno chiedere l’elemosina, aiutatelo. Dategli qualsiasi cosa, fossero anche pochi spicci. Incontrerete anche imbroglioni, ladri o approfittatori. Ma basta una sola persona che ha bisogno, per cancellare le bugie degli altri».
Sono queste le parole del padre di Rosa, che in un paio di occasioni le compare in sogno.
Il cinema di Guédiguian a volte sembra fatto in modo da poter creare situazioni nelle quali riuscire a dire parole importanti. Ed è grazie alla coerenza del suo fare cinema che questa voce riesce ad essere buona e mai buonista.
Lo stesso accadeva ne Le nevi del Kilimangiaro dove citando Jean Jaurès sentivamo: «il coraggio è dominare i propri errori, soffrirne ma senza venirne schiacciati e proseguire il proprio cammino. (…) Il coraggio è capire la propria vita, precisarla, approfondirla, stabilirla e accordarla però alla vita generale»(2).
E se questa è la voce più sociale dell’autore, anche in questo film non manca una certa anima cristiana.
Nell’immagine qui sopra si vede Alice camminare verso gli spettatori. Sopra di lei c’è una riproduzione de “L’ultima cena” di Philippe de Champaigne.
I colori prevalenti del dipinto si ritrovano all’interno dell’inquadratura composta con precisione geometrica. Al centro avanza lei, come al centro del cenacolo c’è il Cristo.
E il riferimento al Nazareno torna ancora in alcune cartoline all’interno della sua stanza. C’è Il “Cristo morto” del Mantegna e ancora “Il Cenacolo”, questa volta per mano di Leonardo. Sul retro dell’immagine alcune parole scritte a mano: «La tragedia della nostra epoca è che i pazzi guidano i ciechi».
Ma l’iconografia cristiana si ritrova anche nella stessa struttura del film che si apre con un pranzo, come l’opera di Gesù inizia durante il banchetto di Cana e termina con una folla stretta attorno al ricordo di una morte. Come gli apostoli e i fedeli accanto a Cristo nelle sue drammatiche ore di passione, solitudine e risurrezione.
E si ritorna quindi al titolo del film. All’idea che la festa continua. Che gli ideali grazie alla fede, anche quella politica, possono resistere al male degli uomini, riuscendo a trovare nuova vita.
Così da non dimenticare che la politica è un’azione da fare assieme. In una stanza, attorno ad un tavolo, dentro ad un quartiere, cercando una sintonia con le vite di chi ci è accanto, trovando energia in certe parole antiche e preziose che quando ci sono fanno girare meglio il mondo: la solidarietà verso il prossimo, l’amore per gli altri e per noi stessi, e l’amicizia, forse il primo sentimento che impariamo a conoscere da bambini e che rischiamo di dimenticare da adulti. Ma il cinema di Guédiguian, con i suoi amici, attori-autori, con le sue storie sempre un po’ uguali ma sempre anche un po’ diverse, ci aiuta a ricordarci che la vita un po’ ci capita e un po’ la si sceglie, e che la vita, quella vera, va in scena senza la necessità di un grande colpo di scena.
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