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Il cinema Queer secondo Luca Guadagnino

Queer di Luca Guadagnino vi aspetta al cinema: qui lo rileggiamo alla luce dei punti salienti della sua filmografia.

Di Carlo Giuliano*

Qualche tempo fa, come ormai consuetudine per attori e registi che vogliano promuovere l’uscita dei loro film negli Stati Uniti, Luca Guadagnino è stato invitato nel Criterion Closet, lo sgabuzzino delle meraviglie che contiene alcuni dei più importanti film conservati dalla Criterion Collection. Così inquadrati, circondati da tanto grande cinema quanto ne può contenere il mondo, gli ospiti cercano fra gli scaffali, pescano a caso tra i film più influenti per loro, commentano il cinema che li ha plasmati. 

Quando è toccato a lui, Luca Guadagnino ha detto: “Io penso che ogni grande film sia gay. Senza dubbio. Se un film non è gay, difficilmente è da considerare un grande film”. E così ho pensato immediatamente ai miei due film preferiti (Il dottor Stranamore e Il buono, il brutto, il cattivo) e subito dopo ho pensato avesse maledettamente ragione. D’altronde, non c’è un po’ di omoerotismo nel rapporto fra Eli Wallach e Clint Eastwood? E non c’è forse nella telefonata fra Presidenti USA e URSS nel film di Kubrick, oltre a una generosa dose di simbologia fallica cosparsa per tutto il film? Sicuramente.

Al contempo però, Luca Guadagnino ha sempre considerato, le sue, non come storie d’amore gay (o storie gay più in generale), ma come storie d’amore punto. Forse perché in un mondo in cui “Everyone is gay” – come canta Sinéad O’Connor in All Apologies, canzone d’apertura di quei bellissimi titoli di testa di Queer – nessuno lo è più. O meglio: non è una differenza. Meglio ancora: è solo una, non la più determinante delle miriadi di differenze e analogie che ci rendono, come monadi o fiocchi di neve, ciascuno diverso rispetto all’altro, ciascuno “irreplicabile” nella sua complessità.

Ecco, il cinema di Luca Guadagnino ha sempre parlato del materiale umano come sistema complesso, e questa complessità è più presente che mai in Queer, il film tratto dal romanzo di William Borroughs che lui lesse a 17 anni e che sognava di realizzare da quando è un regista. Ma anche e soprattutto parla di questo: dei diversi, o per meglio dire delle diversità che ci appartengono a tutti e ci rendono, quelle sì, uguali. Il cinema di Luca Guadagnino parla a tutti perché parla di tutti: dei diversi e dei simili, di chi si riconosce nell’altro o di chi sfugge da se stesso. Di tutte le possibili combinazioni.

Il suo è un cinema Queer secondo le traduzioni orgogliose: “strano”, “bizzarro”, “insolito”. Diverso. Ripercorriamole insieme.

Io sono l’amore

Prima di Chiamami col tuo nome venne Io sono l’amore, terzo film per Luca Guadagnino e seconda collaborazione del proficuo legame con l’attrice Tilda Swinton. È il 2009 e lei interpreta Emma Recchi, capostipite femminile della ricca famiglia lombarda dei Recchi: il marito Tancredi e i figli Elisabetta, Edoardo e Gianluca. La loro è una vita cadenzata dalla gestione dell’azienda di famiglia e dalle convenzioni-costrizioni sociali imposte dal loro rango e dal contesto dell’alta borghesia milanese. Emma, algida come la sua interprete Tilda Swinton, scoprirà l’amore con il giovane cuoco Antonio, mettendo in discussione tutto quel radicalismo, quelle sovrastrutture sociali che la tenevano prigioniera. Già qui: una storia d’amore (eterosessuale) che trova nella rottura delle convenzioni il suo centro, qualunque esse siano. Che vede l’incontro di due anime tanto diverse e la scoperta di sé, prima che tutto cambi.

Chiamami col tuo nome

La cosiddetta “Trilogia del Desiderio” che Guadagnino aveva aperto con Io sono l’amore e continuato con A Bigger Splash – remake del thriller erotico La piscina (1969) con Alain Delon e Romy Schneider – l’avrebbe chiusa con il film che più lo impose all’attenzione di Hollywood, e in generale di tutto il mondo: Chiamami col tuo nome. È anche il film che avrebbe lanciato l’attore più prolifico e osannato dell’ultima generazione, Timothée Chalamet qui nei panni di Elio, giovane diciassettenne che passa l’estate ’83 con la famiglia in una grande villa nelle campagne circostanti Crema. Qui conosce Oliver (Armie Hammer), dottorando in archeologia del padre di Elio. L’iniziale strafottenza di questi, quasi il gioco di distanza messo a ricalcare quella anagrafica, si trasformerà ben presto in un amore che è tanto più forte quanto conduce alla scoperta di sé. Quella di Elio e Oliver è quindi certamente una storia d’amore gay e Chiamami col tuo nome ebbe il merito di farsi nuovo capofila, nel pubblico mainstream, di un cinema queer molto poco fruito da chi queer non lo era. Ma è innanzitutto una storia sui primi amori e i segni che lasciano, coronata da quel finale di straziante incoraggiamento all’accettazione che è il monologo-rivelazione del padre di Elio, un bravissimo Michael Stuhlbarg, il padre che tutti vorremmo. Ma come sempre nel cinema di Guadagnino, per qualcuno che si riconosce c’è sempre qualcun altro a cui è sottratta questa possibilità: quello che vale per Elio, non potrà valere per Oliver.

Bones and All

Leone d’Argento alla Regia andato a Guadagnino nel 2022 per questo film, che è il suo secondo horror dopo Suspiria e il secondo film con Timothée Chalamet. Ma come nel meglio del filone, l’horror non è veramente un horror perché il mostro non è veramente un mostro, il cannibale è semplicemente l’emblema del diverso che non si è scelto e deve intraprendere un viaggio per scegliersi. Questo è il viaggio di Maren, interpretata da una formidabile Taylor Russell – a lei il Premio Marcello Mastroianni assegnato da Venezia agli attori emergenti. Abbandonata dalla madre “affetta” dallo stesso “morbo”, non meno dal padre spaventato dalla natura della figlia – e sicuro che lei sarà “in grado di superarlo” – Maren farà la conoscenza prima di Sully, famelico cannibale interpretato da Mark Rylance, e poi di Lee, nomade senza fissa dimora che le insegnerà quanto di sbagliato e demonizzante ci sia non tanto in lei, ma proprio in quei termini messi fra virgolette che da sempre si era vista affibbiata. Se Chiamami col tuo nome era il film della scoperta di sé, Bones and All fa il passo successivo, quello dell’accettazione di sé. E di nuovo, il processo passa per l’amore. L’amore di uno che di nome fa Lee… 

Challengers

Ah, quanto piace ai registi il tennis come metafora della vita! Di tutti i film di Luca Guadagnino, Challengers è il più performativo, il più scatenato, quello in cui la forma sembra (solo apparentemente) prendere il sopravvento sul contenuto. Ma così non è. L’eterna partita di tennis giocata da Art e Patrick sul campo, nella stanza da letto e nella vita è la partita fra due uomini che hanno usato la competizione per mascherare qualcosa che non si sono mai voluti ammettere a vicenda. In mezzo a loro, come una palla da rimbalzarsi racchettata dopo schiacciata, hanno messo Tashi Duncan, promessa del tennis costretta al ritiro a causa di un infortunio. Contesa, al centro, eppure non vista, come ci segnala quella partita finale dalla regia incredibile in cui sul campo ci sono solo Art e Patrick, per quanto si raccontino di voler vincere per dimostrare qualcosa a lei, e non a loro stessi. Forse il grido finale di Tashi è proprio per loro, perché finalmente stanno giocando per inseguire se stessi e non per inseguire lei. Tre interpreti in perfetta sintonia – la superstar Zendaya, il neofita Mike Faist e il pupillo del cinema europeo Josh O’Connor – sono la linfa vitale del film meglio girato di Guadagnino, il secondo a farlo approdare presso un’ulteriore fetta di pubblico. 

Queer

E alla fine arriva Queer. Arriva dopo quasi quarant’anni che Guadagnino fece esperienza folgorante della lettura di Borroughs e decise che la storia di Lee e Allerton sarebbe diventata il suo sogno da adattare, quello che ogni regista nel corso della sua carriera ha serbato e che non tutti riescono a realizzare. Parlarne è tanto più difficile quanto più, almeno secondo l’opinione di chi scrive, ci troviamo in presenza del miglior film di Luca Guadagnino. Un film che non tradisce mai il romanzo – non che sia un problema farlo, di solito l’opposto, ma questa è una delle eccezioni – e che porta con coraggio, sugli schermi del 2025, gli ultimi personaggi che ci si aspetterebbe di vedere per parlare di storie queer. Ma di nuovo: per Guadagnino non esistono storie queer e non queer, esistono solo storie. E quella di Lee e Allerton è la storia di due uomini che prima si usano a vicenda, poi cominciano a riconoscersi, infine si lanciano nell’abisso dell’inconscio ma un attimo prima di scoprire veramente se stessi… fuggono, si auto-sopprimono. Queer è un film su un’interruzione, un film psichedelico e sinestetico ambientato in un Messico pittorico tutto ricreato a Cinecittà, con Justin Kuritzkes di nuovo alla sceneggiatura dopo Challengers e una fantastica colonna sonora di Trent Reznor & Atticus Ross, collaboratori di Guadagnino dai tempi di Bones and All.

Un film complesso, certamente, ma che bella la complessità. Un film che non potete mancare al cinema, e che anzi trarrà forza da ogni nuova visione che gli concederete. Parola.

 

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.

 

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