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Intervista
Il seme del fico sacro: Mohammad Rasoulof racconta l’Iran, oggi

Il regista esule rende uno spaccato definitivo dell’Iran mentre ci racconta del suo nuovo film, candidato all’Oscar e al cinema dal 20 febbraio.

Di Carlo Giuliano*

Candidato all’Oscar come Miglior Film Straniero, già Premio Speciale della Giuria allo scorso Festival di Cannes, dal 20 febbraio arriva finalmente al cinema Il seme del fico sacro di Mohammad Rasoulof. Il tono è quello del thriller, un genere da grande pubblico con cui il regista iraniano racconta gli sconvolgimenti in atto nel suo Paese per farli arrivare al resto del mondo.

Perché Il seme del fico sacro è una metafora in piccolo dell’Iran, che attraverso la storia di una famiglia apparentemente normale racconta il volto più oscuro della Repubblica Islamica e la condizione cui sottopone le donne. È la storia di Iman, giudice istruttore del tribunale rivoluzionario – per capirci, colui che emette le condanne a morte – con una moglie e due figlie a casa. Le figlie sono all’oscuro del suo lavoro, ma quando la morte di Mahsa Amini per mano della Polizia Morale fa scoppiare la rivolta Donna Vita Libertà, la guerra arriverà anche dentro le mura domestiche. La pistola di Iman assegnata per protezione sparisce, lui si convince che la colpevole sia in famiglia e si adopera per scoprire la verità, in un’escalation di violenza che rivelerà il suo vero volto: quello di un boia.

Da anni Mohammad Rasoulof fa cinema di protesta contro la Repubblica Islamica e per anni ha dovuto subire condanne e detenzioni in alcune delle carceri più dure dell’Iran. Dopo l’ennesima prigionia è uscito, ha preso coscienza delle rivolte in atto e si è da subito adoperato per girare un nuovo film, realizzato ovviamente in totale clandestinità e ripreso perlopiù all’interno di un unico appartamento. Poi, dopo anni di incrollabile tempra – riuscite a immaginare che a ogni vostro film seguirà una condanna certa, eppure continuare a realizzarli? – è fuggito fortunosamente dall’Iran attraverso le montagne. Forse aveva avvertito che questa non gliel’avrebbero “perdonata”, che Il seme del fico sacro era il suo film definitivo. 

Oggi è davanti a noi, a rispondere alle domande dei giornalisti e raccontare tutto il viaggio che l’ha portato fin qui, sul tetto del mondo cinema.

Considerando il rischio che un film del genere può rappresentare, sia per chi vi prende parte che se si venga a sapere, come ha reperito il cast? Come si è assicurato che clandestinità e segretezza del progetto fosse salvaguardate? 

Dalla rivolta Donna Vita Libertà in poi, molti attori e soprattutto molte attrici iraniane hanno dichiarato chiaramente di non voler più prendere parte a film che sottostanno in qualsiasi modo ai diktat della censura, nei quali dovrebbero indossare l’hijab obbligatoriamente. Quindi abbiamo iniziato a selezionare il cast basandoci sulle posizioni pubbliche dei vari artisti, andando poi a dialogare con loro per capire se potessero prendere parte al progetto. Per esempio Soheila Golestani, che interpreta la madre Najmeh, era finita in prigione all’inizio della rivolta, prima che girassimo il film, proprio per un video che aveva pubblicato sui social e che era diventato virale. Lei è un’artista incredibile, estremamente consapevole e indipendente. Ha accettato subito. 

Lei ha una lunga storia alle spalle di condanne e di prigionie in Iran a causa dei suoi film, ma nonostante questo non ha mai smesso, non ha mai ceduto. Quali sono le conseguenze legali dopo un film del genere? Può aggiornarci su quanto sta scatenando in Iran?

Tra gli attori principali, l’unica persona attualmente in Iran è proprio Soheila. Tutti gli altri attori sono riusciti a lasciare il Paese, alcuni clandestinamente, come me. Però ovviamente non bisogna dimenticarsi tutti i membri della troupe tutt’ora in Iran, dove si sta tenendo un processo giudiziario nei confronti di tutti quelli che hanno partecipato al film. Alcuni, come me, verranno sentenziati in contumacia. Siamo accusati di propaganda contro il regime, attentati contro la pubblica sicurezza e diffusione della prostituzione e della corruzione sulla Terra. 

E sappiamo bene che la condanna è spesso già scritta e comporta anni di carcere duro. A lei cosa l’ha spinta a resistere? Cosa l’ha spinta, ogni volta che è uscito dal carcere dopo mesi o anni di prigionia per un film che aveva fatto, a cominciarne subito uno nuovo?

Gli ultimi 46 anni della storia iraniana, dall’avvento della Repubblica Islamica, sono pieni di eventi molto complessi e che non sono ancora stati raccontati. Per esempio, durante le prime decadi della Repubblica Islamica sono state giustiziate migliaia di persone e finora nessun regista iraniano è riuscito a farci neanche un film. Ci sono un’infinità di storie da raccontare e mille modi diversi per farlo, anche nelle restrizioni. Circa cinque anni fa, quando da anni ormai non mi veniva concesso di lasciare il Paese, mi era stato requisito il passaporto e anche solo andare a girare per strada mi sembrava impossibile, ho iniziato a pensare di realizzare un film d’animazione usando l’archivio storico del Paese. E poi viviamo in un mondo interconnesso, anche grazie ai social. C’è un’intera generazione – che dico, più generazioni – di grandi artisti iraniani in esilio. Mai così tanti artisti hanno dovuto lasciare il Paese in massa. Questo mi dà speranza che si possano raccontare storie oggi, che abbiano sia un legame con la vita, il vero vissuto odierno delle persone in Iran, sia con un pubblico globale. Questo era il mio obiettivo con questo film e lo sarà coi prossimi.

Qualche nuovo progetto già in mente?

Ho tre sceneggiature in mano già pronte.

La famiglia ci viene presentata come estremamente normale, apparentemente moderna. Anche il padre Iman si vanta di aver svolto il suo lavoro onestamente per 20 anni. È solo una percezione dello spettatore, lui in realtà era già quello che si dimostrerà nella seconda parte del film, oppure anche lui è un prigioniero di un sistema che lo porta a diventare carnefice?

Iman prende una decisione netta, a un certo punto del film. Decide di seguire ciò che gli viene richiesto invece di seguire la voce della propria coscienza. E questo lo vediamo in una scena in cui prega e nella sua preghiera dice delle parole piuttosto inequivocabili: “Io mi sottometto a ciò che mi viene richiesto da un potere più alto”. Ora, lui probabilmente è convinto che questa sua decisione abbia un senso religioso, perché in Iran il potere politico è religioso: o meglio, fa finta di esserlo. E questo è problematico. Quindi non ci devono essere incertezze su questo, la sua è una scelta.

C’è una scena che mi ha colpito in particolare, perché di solito non si lascia il contraddittorio al regime in questo genere di film. È quella in cui Iman parla dei nemici dell’Iran, di questa sindrome d’accerchiamento statunitense. È solo propaganda, o crede che questo schiacciamento dall’esterno abbia peggiorato effettivamente la radicalizzazione del regime?

La prima, non ho dubbi su questo. È la tecnica usata da tutti i regimi totalitari per mantenere il proprio potere. Si convince la popolazione che abbiamo un nemico, tanti nemici, anzi che tutto il mondo è contro di noi. Quindi bisogna essere uniti e bisogna reprimere i comportamenti non allineati, perché ci sono “spie” ovunque. È una tecnica piuttosto diffusa che al contempo punta a disseminare sfiducia reciproca e si avvale poi della delazione, come vediamo nel film.

E per quanto riguarda gli intermezzi? Nel mezzo della storia ogni tanto ha inserito dei video verticali in formato 9:16, con le riprese reali delle manifestazioni. Da dove le è nata quest’idea, di portare anche un rapporto d’aspetto “social” sullo schermo orizzontale del cinema? 

Il giornalismo in Iran è un mestiere difficile e non è permesso ai giornalisti di riprendere e documentare le manifestazioni e le proteste. Quindi sono gli stessi manifestanti che diventano, coi loro dispositivi personali, dei cittadini-giornalisti. Poi condividono questi video e foto tra di loro, sui social, soprattutto perché arrivino all’estero, per tenere informata la popolazione mondiale su quanto succede in Iran. Io ero in prigione da vari mesi – per altri miei film precedenti – quando è scoppiata la rivolta di Donna Vita Libertà. Provare a seguire ciò che stava succedendo da dietro le sbarre era piuttosto difficile. La prima cosa che ho fatto quando sono uscito dal carcere è stato fiondarmi a vedere tutti quei video che non avevo potuto vedere fino a quel momento. E sapevo già che il mio film successivo l’avrei dovuto realizzare in clandestinità, e quindi c’era questa grande domanda: come ricreare scene di protesta per strada e con così tante comparse? E anche se mi venisse concesso di farlo, riuscirei mai a ottenere questa stessa forza cruda della verità? Quindi mi è parso importante, dalla finzione, arrivare alla realtà vera e documentaria, anche per riconoscere l’importantissimo ruolo dei social nel rendere più forti e coesi gli attivisti, nell’infondere loro coraggio e voglia di scendere in piazza.

Parlando di giornalisti, sappiamo che è conoscenza del caso di Cecilia Sala, la nostra connazionale detenuta per vari giorni nel carcere di Evin. Lei ha passato mesi in isolamento in quel carcere. Cosa ha pensato quando ha saputo?

Innanzitutto ci tengo a ringraziare Cecilia Sala per essersi assunta il rischio, da giornalista, di andare in Iran, così da vedere da vicino quali siano le condizioni delle donne iraniane al momento. Io sono stato incarcerato nella Prigione di Evin due volte, quindi posso ben immaginare che esperienza difficile sia stata per lei. Credo che sia ancora più difficile per un’europea, perché io ho vissuto in Iran, ci sono nato, sono preparato in qualche modo a combattere con quelle difficoltà. Credo che un europeo sia meno preparato a quel tipo di carcere duro. Ciò che io faccio con il film è proprio questo: usare una metafora, una storia di famiglia, per raccontare la mia esperienza in carcere a un pubblico più ampio. 

Rimanendo sul valore metaforico del film, l’ultimo atto è sicuramente il più allegorico, è pieno di simbologie. Il film stesso cambia radicalmente ambientazione e ritmo, e diventa quasi un altro film. Cosa rappresenta?

Il finale rappresenta la lotta fra recrudescenza della tradizione e spinta alla modernità. Il ritorno alla casa paterna per me rappresenta il ritorno a questa tradizione, il ritorno al passato. Il santuario mostra come in Iran si finisca sempre sotto l’ombra di un potere religioso. Era molto importante mostrare questo aspetto di controllo e imprigionamento della famiglia da parte del padre, era anche l’occasione per mostrare l’utilizzo della telecamera e la pratica delle confessioni forzate. Il tutto è in funzione drammaturgica: mentre il film progredisce linearmente verso la propria fine, mentre la storia avanza, noi allo stesso tempo andiamo a ritroso nella storia del padre. Drammaturgicamente, ha quasi una funzione storica, di archeologia sul personaggio, al fine di recuperarlo e capire da dove sia venuto. Per esempio, cosa ci dicono di lui le cianfrusaglie nascoste in cantina? La figlia minore fa partire delle cassette di canto femminile, che ormai è vietato da decenni in Iran.  Volevo mostrare come la cultura iraniana sia molto più ricca e più ampia di quanta ne sopravvive alla censura del regime. 

Senza fare spoiler, ma cosa ci dice il finale in questo senso? Come risponde a chi pensa che l’unico modo per liberare l’Iran dalla violenza del regime sia con altra violenza?

Io non credo che la liberazione possa passare per altra violenza. Credo che la caratteristica più importante e speciale, nella lotta delle donne iraniane, sia proprio il fatto che rigetti qualsiasi forma di protesta violenta. Se guardate alla scena finale infatti, se c’è violenza è generata dal regime stesso. È il regime che si auto-seppellisce e sprofonda in una tomba che si è creata da solo. E credo che succederà proprio questo: a un certo punto il regime sprofonderà, annegherà nella propria tomba. Qualche settimana fa per esempio, un fatto di cronaca ha scombussolato l’Iran ed è stato riportato anche dalla Repubblica Islamica (quindi rimane da capire quanto accurato). E cioè che due dei più famosi (o piuttosto, infami) giudizi iraniani – che hanno condannato a morte tantissima gente, condanne sommarie, dei veri e propri boia insomma, come il protagonista del film – sarebbero stati uccisi da un ufficiale di basso rango, che avrebbe preso la pistola della loro guardia del corpo per poi ucciderli sul posto. E ammettendo che sia andata davvero così, dimostrerebbe che chi semina violenza in casa, la raccoglie in casa. La Repubblica Islamica ha perso molto terreno negli ultimi anni, è in una posizione molto più fragile. Mi auguro solo che tutti i cambiamenti cui stiamo assistendo nel mondo negli ultimi mesi portino a un buon cambiamento soprattutto per la gente comune che vive in Iran, che portino alla libertà che desiderano. 

Tornando al film: lei ha costruito innanzitutto un thriller. La sottotrama della scomparsa della pistola d’ordinanza di Iman, che lui pensa sia stata rubata dalle figlie, apre a un crescendo di tensione che dura per tutto il film. Qual è il ruolo delle figlie, metaforicamente parlando?

È la generazione più giovane che capisce di aver sempre subito una bugia. Per anni, le figlie non hanno saputo quale ruolo svolgesse effettivamente il padre nel meccanismo di potere, di violenza e repressione dello Stato. Poi rimangono impressionate da ciò che succede alla loro amica, ferita durante una manifestazione. Infine realizzano che il padre ha un ruolo in tutto questo, molto più grande di quello che avevano sempre pensato. È il confronto con la realtà che scatena la reazione. Non è che vogliano farci qualcosa con la pistola, il punto non è esercitare altra violenza, quanto sottrarla al potere, disarmare il padre. Prendere un’arma in mano, dopo tutta la violenza cui hanno assistito, diventa più una forma di autodifesa che di attacco. Quando parlo di una protesta pacifica non parlo di passività, ma neanche consiglio o invoco la resistenza armata. Quando parlo di protesta pacifica parlo di questo.

Il maggiore spinta al cambiamento arriva dalle donne in Iran? O ci sono altri gruppi e interessi coinvolti? A che punto è la situazione?

Al momento c’è una vera e propria guerra in corso, fatta di singole battaglie fra il movimento da un lato e la Repubblica Islamica dall’altro. E se ne vedono già i successi: vi basti sapere che qualche mese fa il Parlamento ha inviato al governo una nuova legge per l’approvazione, concernente l’utilizzo dell’hijab e ulteriormente restrittiva. E il governo si è tirato indietro, non ha voluto approvarla. Ma non perché non volesse, ma perché sentiva di non potere, ha avuto paura. La lotta per i diritti delle donne in Iran ha radici molto antiche. Questa nuova fase aperta nel 2022 da Donna Vita Libertà è solo l’ultimo anello in una lunga catena. Ed è importante sapere che le rivendicazioni del movimento non si riguardano solo la libertà delle donne, non sono egoiste o personalistiche, ma si estendono a molte altre libertà assenti in Iran, richieste più generali riguardo i diritti umani. E non è certo portata avanti solo dalle donne, ma anche da tanti uomini; uno dei quali penso di essere io.

Il seme del fico sacro vi aspetta al cinema.

 

 

 

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.
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