Il regista Simone Massi racconta la lunga lavorazione di Invelle, il suo primo lungometraggio d’animazione, al cinema dal 29 agosto.
In Invelle, primo lungometraggio di Simone Massi, c’è una forza misteriosa che sta sotto le storie e le emozioni, perché nulla è mai fermo. Tutto si muove. Sempre. So che potrebbe sembrare una osservazione futile. Anche in tanti film live e anche in altri film animati tutto si muove sempre. Ma non è la stessa cosa. In quelli di Simone (e qui in Invelle, ancora di più) il movimento continuo è quello dell’anima, del respiro bloccato dalle emozioni, quella del nero, delle zoomate, quello del silenzio. Un movimento che è lo stesso degli atomi, qualcosa che ha a che fare con il centro della vita. Questa presenza costante ci porta attraverso paesaggi e personaggi che percorrono la Storia e le generazioni. Simone lo usa come fosse il filo rosso dell’umanità, una forza interiore instancabile e instabile, pronta a far agire l’umanità in percorsi contrari: quelli della prigionia o della liberazione.
Simone, un lungometraggio non è un cortometraggio allungato. È proprio un altro tipo di lavoro, giusto? Come hai vissuto questa nuova esperienza?
È indubbiamente un altro tipo di lavoro, è come passare dall’haiku al romanzo. Per me è stata un po’ una scelta obbligata, perché con il cortometraggio non ci si campa. Nel momento in cui stavo per diventare padre mi sono sforzato di concludere il mio ultimo corto autoprodotto (L’attesa del maggio) e parallelamente ho cominciato a scrivere il soggetto del lungometraggio. Inizialmente con un po’ di preoccupazioni, proprio per il “salto” fra una struttura narrativa e l’altra, perché i personaggi per la prima volta dovevano avere un’identità, un padre, dei sentimenti, il diritto alla parola. Erano preoccupazioni anche giuste che poi si sono dissolte per strada.
In che maniera?
Un po’ per sfinimento, dovuto prima alla lunghissima gestazione che ha caratterizzato il film e poi alla febbrile lavorazione. E poi, come succede per tutte le cose nuove, provando e riprovando, sbagliando e imparando.
I tuoi cortometraggi sono molto intimisti, è il tuo mondo interiore che ci parla. Con Invelle hai invece raccontato la recente storia d’Italia attraverso tre generazioni e hai dovuto narrare dei fatti. Quali sono quelli che fanno parte della tua vita o della vita della tua famiglia?
Diceva Mark Twain “Quando ero giovane ricordavo ogni cosa, accaduta o no”. Ecco, in Invelle il vero e il falso si alternano, si mischiano, si impastano, diventano una cosa sola. È così che è stato concepito il film, ed è difficile fare una selezione, non so nemmeno se ho voglia di farla. Ti posso dire che ci sono delle storie di famiglia che inizialmente erano nella sceneggiatura e che poi ho tolto perché non funzionavano. Altre sono state completamente distorte: le ambientazioni, le epoche storiche in cui sono nati i personaggi, il fatto di avere o meno fratelli e amici. Nelle vicende dei protagonisti sono entrate storie successe ad altre persone, amici, vicini di casa, poeti e romanzieri…
Hai già detto che il lavoro è stato lungo e vario.
Ho visionato centinaia di film d’epoca, letto centinaia di volumi, interrogato tante persone, fatto appello alla memoria, ai tanti racconti ascoltati. C’è stata una ricerca molto approfondita. Senza mai dimenticare il mio lavoro quotidiano, che non è quello dello storico, del sociologo, dell’antropologo o del documentarista. Ogni verità, ogni tentazione di realismo, doveva necessariamente essere spazzata via dal falso, dall’illusione, dal sogno, dal gioco.
Qualcosa so della lunga lavorazione del film. Quante volte l’hai riscritto?
Ho trovato una quarantina di versioni differenti. Non poteva essere diversamente, sono molto esigente e nei tanti anni di attesa venivano fuori idee nuove, cambiavo io, cambiava anche la storia.
Inizialmente l’avevi presentato con un altro titolo. Perché poi Invelle?
Perché, appunto, il percorso produttivo è stato molto difficile, tra possibili finanziatori italiani e francesi. Ci sono stati periodi molto frustranti, un po’ perché mancavano i fondi, un po’ per svariati ripensamenti sul progetto. Nel 2020 è arrivata, provvidenziale, la figura di Salvatore Pecoraro e ha cercato di mettere ordine al caos, mi ha concesso fiducia e piena libertà creativa, su tutto. A quel punto si è creata una frattura, netta, pesante, con un lungo periodo di crisi e tensioni. Per evitare problemi Salvatore mi ha chiesto di riscrivere tutto il film, da capo, e di cambiare il titolo. Dal momento che i nuovi dialoghi erano in dialetto, ho scelto di recuperare questa parola meravigliosa, inutilizzata e dimenticata da decenni, rappresentativa della storia del mio paese, delle persone che ci hanno vissuto e che ancora ci vivono.
Ci spieghi il suo significato?
Significa in nessun posto, da nessuna parte. Da bambino vedevo mio padre uscire di casa e gli chiedevo “Dove vai, babbo?” e spesso la risposta era “Invelle”, come a dire qui fuori, quattro passi intorno a casa.
Negli anni è diventata una sorta di parola-simbolo della rozzezza dei contadini, al punto che da decenni nessuno la utilizza più. Ma è tutto sbagliato. Ho studiato a fondo questo avverbio, l’ho incluso nel mio Abbecedario (il dizionario del dialetto pergolese): viene dal latino ubi velles, «dove tu voglia, in qualunque parte», composizione di ubi, «ove», e velle, «volere, volontà» (Il termine “velle” viene utilizzato anche da Dante, nella Commedia: Ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle). In seguito diventa, in de ubi velles, volgarizzato in induvèlle, invèlle, e il significato si rovescia, diventa «in nessun luogo». Ho scoperto che nel mio dialetto ci sono tantissime parole come Invelle. La verità è che i contadini hanno avuto in bocca per secoli parole antichissime, nobili. Il volgare si è conservato nella lingua degli ultimi, dei contadini, dei disgraziati , degli analfabeti.
Riprese dal vero come traccia per l’animazione. Perché hai scelto questa tecnica?
In realtà il film guida che ha fatto da traccia all’animazione è un misto di riprese dal vero, animazione 3D e animazione tradizionale, a matita. Le riprese dal vero sono preponderanti, è vero, e non si poteva fare altrimenti. Perché la produzione era arrivata lunghissima alle scadenze ministeriali e alla fine a me e al mio gruppo di disegnatori è stato concesso un solo anno per realizzare 40.000 tavole. Voleva dire un numero sconsiderato di tavole giornaliere, chiaroscurate, finite, senza errori. Nei primi mesi ci siamo appoggiati al 3D ma io e la mia squadra non eravamo contenti, tornavano fuori una serie di errori già emersi durante la lavorazione de La strada dei Samouni, di Stefano Savona. Non eravamo contenti, davvero. Abbiamo insistito finché la produzione ha ceduto e fermato le lavorazioni in 3D.
Quindi bisognava in fretta trovare la maniera definitiva di completare il lavoro.
Sì, e a quel punto le riprese dal vero rappresentavano l’unica via, in quanto davano garanzie di velocità ed esattezza, tanto dei movimenti quanto delle proporzioni e del chiaroscuro. Ho cercato di limitare l’iperrealismo chiedendo ai figuranti di muoversi poco o niente, lasciando spazio ai movimenti di macchina, panoramiche e carrellate. Siamo stati contenti del risultato: durante le riprese c’era un clima festoso, scanzonato, perché consapevoli che tutto quello che filmavamo sarebbe poi stato disegnato, e quindi quello che non funzionava cambiato, corretto. La piccola troupe inizialmente si preoccupava degli oggetti in campo, il cavo, il lampadario, le macchine moderne… Li rassicuravo dicendo loro “Non importa, basta non disegnarli”. Alla fine nessuno si preoccupava più di niente e dicevano ridendo “Basta non disegnarli”. Ho un bel ricordo di quei giorni, è stata un’esperienza utilissima.
Per un artista che definirei “concentrato su sé stesso” (nel senso del tuo mondo interiore) come si risolve il problema di diventare il regista, cioè il punto di riferimento artistico di altre colleghe e altri colleghi, in un progetto così complesso che deve superare tante problematiche organizzative e personali?
Problemi ce ne sono stati a vagonate, tutti quelli possibili, ma non questo. Nel senso che la maggior parte dei disegnatori coinvolti mi conosceva da anni non solo come autore ma anche come persona. Con alcuni dei colleghi siamo proprio amici. I “nuovi” sono entrati in squadra perché subito dopo aver valutato i loro disegni di prova li ho voluti conoscere di persona. Tutti quanti sono stati scelti per professionalità e doti umane. Il resto è venuto di conseguenza: chiedevo delle cose, verificavo il lavoro fatto, approvavo o chiedevo delle correzioni a seconda del caso. È stato un vero lavoro di squadra, la rabbia o la gioia di uno sono state la rabbia e la gioia di tutti.
A che punto della lavorazione sono state effettuate le registrazioni delle voci? E come hai scelto i grandi attori (alcuni dei quali già avevano prestato la loro voce per i tuoi corti)?
Le registrazioni sono state effettuate un po’ all’ultimo, nella primavera del 2023. La scelta dei doppiatori è stata mirata, attenta. Per i non professionisti mi sono concentrato su paesani, amici e familiari, perché conoscevano benissimo il dialetto e sapevo come gestirli. Sono stati tutti incredibilmente bravi, la sorpresa più grande è venuta dai bambini, i miei figli ma non solo. Poi, certo, tutta l’attenzione dei media è per i grandi attori. Fortunatamente hanno accettato tutti, subito. Sono rimasto piacevolmente sorpreso, non sono l’autore noto a cui le grandi personalità dicono sì senza pensarci. Filippo Timi è stato scelto come doppiatore di uno dei personaggi principali, perché l’inflessione umbra è molto vicina a quella pergolese. Sono stati scelti come doppiatori anche Marco Baliani e Neri Marcorè, perché in grado di riprodurre qualsiasi inflessione. Mimmo Cuticchio e Giovanna Marini interpretano sé stessi. Infine ad Ascanio Celestini, Luigi Lo Cascio e Toni Servillo sono state affidate le letture dei testi rispettivamente di Sante Caserio, Cesare Pavese, Garcia Lorca. Le letture sono state pensate per “staccare” dalla storia e dal dialetto. In questo caso voci e parole avevano il compito di abbandonare temporaneamente le vicende dei tre piccoli protagonisti per portarci altrove.
Che effetto ti ha fatto rivedere il film al Festival di Venezia?
L’idea era di non vederlo, di uscire dalla sala prima dell’inizio del film. I due minuti di applauso quando la speaker ha annunciato il mio nome mi hanno convinto invece a rimanere, per rispetto del pubblico, dei colleghi, della famiglia, forse anche di me stesso. Sono rimasto fino alla fine e ci sono stati quegli incredibili sei minuti di applausi, interrotti solo perché il moderatore ha cominciato a parlare. Non dico niente sul film ma tutti quegli applausi, che mi sono sembrati interminabili, sono artisticamente parlando la più grande emozione della mia vita, superiore al David di Donatello e a qualsiasi altro premio.
Nonostante la tua bellissima, poetica e nostalgica visione del mondo contadino, sembra che in Invelle tu voglia cercare degli spiragli di speranza per il mondo dì oggi. Ti ritrovi in queste mie parole?
Ma sì, certo! Non potrebbe essere altrimenti. Continuo a credere nelle persone, nell’insegnamento, nell’esempio. Ho tre bambini, sono amico di tanti bambini, come potrei continuare a guardarli negli occhi, sapendo di ingannarli, di nascondergli un mondo orrendo e senza speranza?