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Intervista
Ti West
Di Cinema e di Horror: intervista con Ti West

Di Manlio Castagna* Incontro Ti West per l’intervista e mi sembra già di conoscerlo da tempo.  Ero con lui quando ha presentato a Roma il suo nuovo film – Maxxxine – che chiude la trilogia slasher horror i cui primi episodi sono i fortunatissimi X  e Pearl entrambi illuminati dal talento di Mia Goth nel […]

Di Manlio Castagna*

Incontro Ti West per l’intervista e mi sembra già di conoscerlo da tempo. 

Ero con lui quando ha presentato a Roma il suo nuovo film – Maxxxine – che chiude la trilogia slasher horror i cui primi episodi sono i fortunatissimi X  e Pearl entrambi illuminati dal talento di Mia Goth nel ruolo di Maxine Minx e della sua “antagonista” Pearl. 

Le sale erano sold out con spettatori pieni di curiosità per West che ha regalato al pubblico una sorta di masterclass di regia e di messa in scena cinematografica. Oggi con lui ho dialogato su altri aspetti della sua vita di regista, ma anche di spettatore. 

La prima domanda è questa:

Incontrando spesso i ragazzi nelle scuole chiedo loro perché sono così attratti dal cinema horror. Uno di loro una volta mi ha dato questa risposta: “ogni volta che ne guardo uno, mi sento più grande”. Cosa ne pensi?

È una buona risposta. Ci sono diversi tipi di film horror, ma in generale: guardare qualcosa che si pensa non sia appropriato per loro, qualcosa che potrebbe spaventarli a morte eppure essere capaci di gestirne la visione, essere ancora lì alla fine del film, può fa nascere l’idea che ci sono sfide che sono in grado di affrontare. Il teenager si dice: “Anche se gli altri pensano che io non sono pronto per confrontarmi con queste cose, io invece lo sono.” Se guardo dalla mia prospettiva quando ero ragazzino, cercavo sempre qualcosa che mi portava un po’ più lontano e c’era una certa eccitazione in questo superamento dei limiti. Ecco penso che sia davvero un ottimo modo di guardare all’importanza dell’horror per i ragazzi.

E tu che tipo di film horror vedevi da ragazzo?

Vedevo tutto. vivevo in un sobborgo di una cittadina della Carolina dove non c’era una grande cultura cinematografica, ma c’era un videostore  e come tutti questi tipi di negozio c’era una sezione horror: uno di quei posti dove non avresti dovuto andare da bambino. Ma io ci andavo e sceglievo sempre un film. A volte era spaventoso o a volte non lo era abbastanza e allora cercavo qualcosa di più forte. In generale quella sezione horror era piena di film artistici e così incredibilmente terrorizzanti. Puntavo sempre quelli che mi sembravano sfidanti, che rompevano dei tabù e che parevano capaci di farmi davvero paura. Ecco, guardavo di tutto con avidità, specialmente le storie più “gore” e sanguinolente. 

E ora? Continui a guardare molti film del genere?

 No. Innanzitutto ne ho visti una quantità immensa nella mia vita. Ho 44 anni e partendo dai 10 puoi intuire che ho visto molti più film horror della maggior parte delle persone in assoluto. Ora vedo solo quelli più popolari, quelli che vedono tutti. Del tipo Talk to me [scritto e diretto da Danny e Michael Philippou, ndr], per esempio. Non sono più così attivamente coinvolto come spettatore del genere, come lo ero un tempo  quando vedevo qualsiasi cosa uscisse. Sono padre adesso e ci sono tante cose da fare nella vita (sorride) e mi piace anche guardare altro, assaggiare altri tipi di film, serie tv. c’è così tanto là fuori… 

Quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro” ha scritto Friedrich Nietzsche. C’è un po’ anche questo nella tua scelta di fare qualcosa di diverso adesso?

Non lo so. Gli ultimi 4 o 5 anni sono stati così pieni di lavoro… voglio dire ho lavorato a questa trilogia h24 e sette giorni alla settimana. È stato davvero non stop. Ero nel flusso del lavoro, non esisteva nient’altro. Sono stato concentrato a non essere travolto da tutto questo e così ho fatto una vita molto disciplinata, noiosa oserei dire. Mi svegliavo presto, andavo al lavoro, direttamente a dormire, quindi di nuovo in piedi per lavorare e così via per settimane, mesi, anni. Ero obbligato a farlo, c’era troppo lavoro da fare! Non ho avuto nemmeno il tempo di pensare ai miei demoni, al mio abisso (sorride di nuovo).

Con Maxxxine e l’intera trilogia è come se tu avessi portato l’arte del fare cinema nella tua storia pagando un tributo convinto a grandi registi del passato. Primo fra tutti Alfred Hitchcock. Qual è la sua lezione più grande per te?

 Hitchcock forse è il primo regista, nello specifico in Psycho, che mi ha fatto capire cosa significasse: dirigere un film. Perché è il tipo di film che quando lo guardi tu puoi sentire la regia. Molto più che in altre pellicole. È l’arte del filmare, della messa in scena, della regia cinematografica. È un modo straordinario per individuare l’intenzionalità di certe scelte. Il  perché si fa una cosa piuttosto che un’altra. Se la camera fa un movimento c’è un motivo preciso. Indipendentemente dalla storyline il mezzo cinema ha una sua identità. La macchina da presa è un personaggio nel film. Per me che volevo fare film le opere di Hitchcock erano un esempio luminoso di come si costruiscono e qual è la struttura che ne regge il peso. È un cineasta che ha capito perfettamente come i film arrivano alle persone. Quindi Psycho non è solo il primo grande slasher movie che ha aperto una strada, bensì  un perfetto esempio di costruzione e “intenzionalità”. C’è la consapevolezza che ogni singola inquadratura serve allo scopo del film. 

E tu che tipo di regista sei? Prepari molto, con storyboard e cose così o improvvisi sulla scena?

Non faccio molto storyboard. Preparo una specie di shot list che mi aiuta a pre-visualizzare il film. così che è più facile per me dare indicazioni a chi praticamente si occuperà delle videocamere. La sera prima faccio un piano più dettagliato per essere concentrato e capire le esigenze da tenere a mente per il giorno delle riprese. Per non trascurare quelle piccole cose che poi potrebbero risultare importanti sul set. Le riprese sono sempre frenetiche e concentrate di lavoro, quindi potresti dimenticare qualcosa. Quindi diciamo che faccio sì un piano piuttosto chiaro, ma so che non tutto si può prevedere e cerco di essere elastico per cambiare in corsa secondo l’istinto o per prendere il meglio da una location che ti può regalare qualcosa di inaspettato.

Ogni regista ha delle scene che ama girare e quelle che  preferisce un po’ meno. Quali sono per te?

Non mi piace filmare nessuna scene d’azione, sono davvero noiose tecnicamente. Non c’è niente di divertente nel realizzarle, paradossalmente. C’è una serie infinita di piccole cose, di tagli, di frammenti di immagine da tenere in conto. È un continuo  stop & go. È stressante e ti ruba un sacco di tempo. Poi metti tutto insieme e la gente è felice del risultato, ma non sa che dietro c’è così poco divertimento nel farlo. Meglio invece le scene di dialogo per esempio o quando devi catturare l’interazione tra le persone. O scene che devono sottolineare uno stato emotivo. Ecco quelle sono le  mie preferite.

Hai definito Mia Goth selvaggia e imprevedibile. Come hai lavorato con lei? Come si canalizza questo fiume in piena?

Ho cercato di darle dei parametri. Dei paletti, diciamo così, dentro i quali esprimersi. Sul genere: vediamo quello che fa e poi le do delle indicazioni. “Puoi andare da qui a lì, perché oltre quei limiti non funziona. O è fuori tono”. Ma tutto ciò che c’era nel mezzo era qualcosa che potevo gestire e che potevo seguire. Lei non è “tecnicamente precisina”, lei è un talento naturale. Vive il momento e lo sente. La sua recitazione viene da un posto reale dentro di lei. Questo ti obbliga come regista a non forzare troppo la mano, ma solo fornirle dei “guardrail” che non le permettono di deragliare sia letteralmente, per una questione di inquadratura, sia emotivamente perché la combinazione tra le scene funzioni. 

Ti piace lavorare in generale con gli attori?

Dipende da quello che faccio. A volte hai un film nella tua testa che non combacia con il film che un attore ha nella sua testa. Non significa che il tuo è meglio del suo, ma sono diversi. E ti rendi conto che non puoi convincerlo in nessun modo della tua visione. Allora devi operare delle correzioni, dimenticare il film preciso che ti sei fatto in mente per andare incontro al suo. Questo può essere stressante. Altre volte ti può capitare un interprete molto tecnico che fornisce una performance giusta per quella scena secondo la sua prospettiva della camera ma che capita in interazione con un altro attore che, semmai meno tecnico, improvvisa e si lascia andare di più. questa collisione di approcci diversi può risultare stridente e difficile da gestire. Per una questione di ritmo, di coerenza e così via. E i conflitti possono rendere l’atmosfera pesante, perché puoi trovare chi è insicuro, vulnerabile e più sensibile. 

Quindi è importante scegliere persone che remano nella stessa direzione, che si amalgamano bene, altrimenti può essere frustrante. Ci sono registi che hanno smesso per un po’ di fare film con gli attori e si sono dedicati ai documentari, per questo motivo.

Ma detto questo, amo gli attori e mi piace lavorare con loro. È speciale quando si fa qualcosa insieme in cui si crede. 

E il rapporto con Kevin Bacon?

Kevin è un grande! Una bellissima persona, in generale. È un buon mix dei diversi tipi di attore che ti dicevo. Facendo questo mestiere da così tanto e ad altissimi livelli è il tipo che sa leggere la scena con istinto, senza difficoltà. Ha anche una esperienza così forte che lo ha reso estremamente efficace tecnicamente, non ci sono esperienze che lo sorprendono o a cui non è preparato. Sa esattamente cosa si sta facendo in ogni singolo momento. Ed è una persona piacevolissima. Molto socievole, molto aperta. Un entusiasta. Avevo sentito che era un fan dei miei film, anche se non ne avevo la certezza. L’ho chiamato ed era vero. E così abbiamo combinato per Maxxxine. 

Hollywood è un killer, per te? Come dice la tagline sul manifesto di Maxxxine.

Non l’ho scritta io questa frase (ride). Ma ha senso. C’è un sottogenere di film dove Los Angeles è un personaggio. Vive nella storia e così Hollywood. Ed è affascinante raccontarla come qualcosa che ti può fare del male. Io amo L.A. ma era interessante entrare in questo sottogenere che ne esalta il lato oscuro.

 

* Manlio Castagna nasce a Salerno nel 1974. Sceneggiatore, regista, scrittore, critico di cinema e per oltre 20 anni nella direzione artistica del festival di Giffoni. Ha lavorato tra l’altro per alcuni anni ad Hollywood e Doha, portando la sua esperienza nel cinema per ragazzi in tutto il Mondo. Esordisce nel 2018 con la trilogia bestseller Petrademone, edita da Mondadori e tradotta in varie lingue. Hanno fatto seguito romanzi e libri non fiction  ancora per gruppo Mondadori tra cui: il pluripremiato La notte delle malombre, Draconis Chronicon, Goodwill, Barriera, 116 film da vedere prima dei 16 anni, la Reincarnazione delle Sorelle Klun e i recenti Dedalo & Dharma e Prova a non dormire. Scrive per Cinecittà News e insegna alla Scuola Holden di Torino scrittura di genere: fantasy, horror, thriller. Nel 2022 ha scritto e diretto il docu-film “Il viaggio degli eroi” con Marco Giallini con ascolti record su Rai 1.

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