Il docufilm di Riccardo Milani impedisce a Gaber di estinguersi davvero: “Io, noi e Gaber” è al Cinema solo il 6-7-8 novembre.
“Sarei curioso di sapere cosa pensa del mondo di oggi”. Questo è il desiderio che ha dato il La a Riccardo Milani per realizzare Io, noi e Gaber. Il regista ha celebrato Giorgio Gaber, a vent’anni dalla sua morte, in un docufilm appassionato e polifonico, promosso dalla Fondazione Gaber, che ne restituisce la grandezza. Sarà nelle sale con una proiezione speciale il 6, il 7 e l’8 novembre 2023, prodotto da Atomic Production e distribuito da Lucky Red.
Tra i numerosi e preziosi contenuti video, cui siamo grati soprattutto noi giovani di una generazione che Giorgio Gaber dal vivo l’ha solamente sognato, le interviste di tanti e tante che l’hanno conosciuto. Ovviamente la sua famiglia: la figlia Dalia Gaberščik, suo marito Roberto Luporini – sì, Sandro Luporini è suo zio – e Lorenzo Luporini, il giovane nipote di Gaber che tramanda il ricordo di suo nonno incarnando anche l’unione fra le due famiglie oltre il sodalizio artistico. Volti della musica, giornalisti, amici di una vita, esponenti politici: tutti parlano di Gaber con la luce negli occhi, e questa è la magia che ci ricorda o fa accorgere di quanto il Signor G sia stato illuminante e significativo nella cultura italiana e per gli uomini che vivevano di essa.
Le parole dei tanti intervistati – Jovanotti, Claudio Bisio, Gianni Morandi, Michele Serra, Fabio Fazio, Paolo Jannacci, Vincenzo Mollica, Ivano Fossati – e il silenzio di Ombretta Colli, sua moglie, però, non sono soltanto nostalgia e ricordo. Io, noi e Gaber rende Giorgio Gaber vivo ancora oggi, o meglio traccia, mettendo insieme le voci dei protagonisti, la linea che Gaber avrebbe potuto disegnare nel mondo contemporaneo e la parabola pungente, critica e necessaria che avrebbe rappresentato nella cultura di oggi.
Vincenzo Mollica, a proposito del godere dell’arte di Giorgio Gaber, dice verso la fine del docufilm che tutti i suoi contemporanei gli erano grati perché aveva permesso loro di imparare a “campare meglio”. E come può, un uomo scomparso ahinoi da vent’anni, continuare oggi ad insegnare a vivere a questo mondo? Esattamente come lo ha fatto fino a vent’anni fa e in tutta la sua vita. Come dice Fabio Fazio nel docu: “Non scriverebbe cose diverse da quelle che ha cantato”, ovvero oggi direbbe esattamente quello di allora e forse anche nello stesso modo. Perché un demone abitava Giorgio Gaber: quello dell’anticipazione. E il demone dell’anticipazione prende chi è in grado di cogliere il nocciolo vivo e duro delle cose umane, quello che resiste al tempo e non cambia con lo spazio, che accomuna le genti a distanza di anni e non ha scadenze.
Allora di Giorgio Gaber oggi abbiamo ancora qualcosa, che in Io, noi e Gaber si vede più e più volte: il sudore. Lo dicono in tanti nel docu, che il Signor G sul palco saltava, urlava, “sembrava posseduto” dice il nipote, si muoveva forsennatamente. E soprattutto sudava. Quello lì era il sudore del fare le idee, la sua vera attività che lo ha reso vivo ancora oggi e che “non è mai finita”, come canta in una delle sue ultime canzoni.
Un’idea, un concetto, un idea
finché resta un’ idea è soltanto un’ astrazione
se potessi mangiare un’ idea
avrei fatto la mia rivoluzione.
“Gettare il corpo nella lotta” è un’espressione di Pier Paolo Pasolini ma è anche una frase che mette in evidenza la stessa grammatica intellettuale che accomuna lo scrittore Pasolini all’artista Gaber. Pasolini ha fatto del corpo, del suo corpo soprattutto, un simbolo di opposizione al potere dominante e rivoluzione culturale – tanto che è finito martoriato. L’anticonformismo e la solitudine, tematiche che in Io, noi e Gaber emergono a proposito del cantante dalle parole di quanti lo hanno conosciuto, sono due estremi fra cui tanto Pasolini quanto Gaber si sentono in bilico. E quel corpo strano di Gaber, nella concretezza, strano come quello di Pasolini nella concezione, è il simbolo della direzione “ostinata e contraria” – per citarne un altro di anticonformista.
Il corpo di Gaber diventa il fulcro del suo teatro-canzone, posseduto e poi slegato da un urlo liberatorio a fine esibizione. È il contenitore della rabbia: la rabbia del diverso, dell’incazzato, del deluso. La rabbia che è sostanza dell’arte di Gaber, accomunato al Pasolini corsaro – perché gli artisti e gli intellettuali possono permettersi quello che la politica non sa fare. Perché l’incazzato intellettuale non si arroga il diritto di dire quello che vuole, ma si inguaia nel problema del chiedersi perché. Questo “perché arrabbiato” rende Gaber un “cazzotto sullo stomaco”, anche quando con il teatro, la musica e le canzoni sembra solo divertirci.
Come dicono Mollica e Bisio nel docu: sembravano carezze, ma poi ti ci fermavi a pensare e ne sentivi tutta la botta. La musica di Gaber, per tornare a Pasolini, esprime ed incarna la “disperata vitalità” di cui il poeta e scrittore ha scritto. Disperata perché delusa dall’atmosfera culturale e politica sempre più rarefatta, ma vitale in quanto animata e resa viva dall’ardore e dalla fede in qualcosa di più grande. Quella botta e questa verità dell’arte, tutt’uno con la rabbia e le idee, sono il motivo per cui Io, noi e Gaber oggi va visto e, anzi, studiato.
Sono diverso e certamente solo
sono diverso perché non sopporto
il buon senso comune
ma neanche la retorica del pazzo
L’ultimo aspetto da cogliere in Io, noi e Gaber per capire quanto l’uomo Gaber di ieri abbia ancora le idee per oggi, riguarda proprio i mezzi della comunicazione – quelli che oggi, molto più di ieri, determinano le nostre vite. La carriera di Gaber, il docu la ripercorre benissimo, parte da una Milano-paese, abitata dai “Trani a gogò” e innervata dal contatto umano, figlio di un’epoca sociale – di cui i cantautori italiani di quegli anni fanno la loro cifra più distintiva.
Le nove e un quarto, due passi al centro,
destinazione al solito bar.
In quella Milano paesana, Giorgio Gaber si innamora del rock’n’roll e diventa uno dei Fab4 di quegli anni: Mina, Celentano, Jannacci e Gaber. Dal jazz al liceo al rock con Celentano, per sbarcare sul piccolo schermo della televisione. Lì, con Caterina Caselli, diventa una specie di mecenate della musica italiana: Battiato, Guccini sono solo alcuni nomi che sono stati presentati dall’iconico duo di successo.
Qui sta il punto: la televisione. Giorgio Gaber arriva ad un certo momento, in uno spezzone inserito nel docufilm a non sapersi definire. Dice di essere un autore, un presentatore, un cantante… un “autopresencantante” esclama. Ed è vero, è un ibrido, un personaggio multiforme dal punto di vista della collocazione nell’arte e nello spettacolo. Perché è confuso? No, perché i mezzi di comunicazione sono soltanto mezzi, non scopi. Sono mezzi e Gaber sa riconoscerli come tali: raggiunge la popolarità della tv? Sì, ma non cavalca quell’onda avvitandosi sul mezzo e rendendo la sua arte fine a se stessa; piuttosto si rimette in discussione col teatro.
Il tipo di format che di volta in volta assume la sua creatività varia, perché al centro ci sono le idee e l’unico scopo di Gaber è farle e proteggerle. Il cuore delle sue attività è quel senso delle cose, per cui Gaber se ne prende il carico fisico e si fa “tutto per la gente“, dandosi completamente ad essa. Ma ogni mezzo ha come fine un intervento culturale. Un’azione specifica, vivida e frizzante come solo sanno essere le operazioni di quella “razza in estinzione” che sono gli intellettuali – con le antenne per anticipare le cose e sgomitare fra tutti i modi per dirle finché non trovano la loro resa più intensa.
Giorgio Gaber non aveva di unico le idee perché – sebbene pochi – anche altri in quegli anni potevano essere anticonformisti, lucidi e premonitori come lui. Aveva l’intelligenza e la capacità creativa di rendere una canzonetta quelle idee ingombranti e gigantesche sul mondo. Andrebbe scritto in un saggio – come quelli di Pasolini – e invece lo sguardo profondo dell’intellettuale che comprende il mondo, lo smonta e lo racconta nonostante le sue complicate implicazioni, Giorgio Gaber ha saputo catalizzarlo nella forma della canzone.
Gaber non apparterrà mai al tempo dello ieri, perché per ogni La mia razza in estinzione ci sarà sempre una Verso il terzo millennio a risollevarlo. Io, noi e Gaber oggi serve a dire questo: Giorgio Gaber sarà sempre un processo vivo. In estinzione, mai estinto.