Pochi registi sono capaci di raccontare le persone comuni e i lavori umili, come fa Aki Kaurismäki in Foglie al Vento. Che condivide questo sguardo sugli ultimi con Ken Loach e Robert Guédiguian.
Quali film, quali registi oggi raccontano i lavori normali e umili, quelli che fanno le persone comuni che riempiono il mondo, ma molto meno il cinema? Pochissimi, li si possono contare sulla punta delle dita. Uno di questi è Aki Kaurismäki che nel suo ultimo film Foglie al vento racconta la storia d’amore accidentata tra un operaio generico, che guida il montacarichi e fa mansioni poco specializzate in cantieri o fabbriche, e una commessa del supermercato.
Evidentemente, il finlandese non è il solo a raccontare questi proletari, ma è l’unico a farlo con un piglio e tono specifici: se il cinema francese e belga, certi autori italiani e in generale il cinema d’impegno civile hanno a cuore questo tipo di figure lavorative per porre il lavoro e la condizione dei lavoratori al centro del discorso, riducendo più o meno l’intero orizzonte emotivo e umano del film alla denuncia, confondendo a volte l’occupazione con l’identità di quelle che potrebbero essere “persone”, per Kaurismäki il discorso è diverso, perché nei suoi film il lavoro è qualcosa che una persona fa, non qualcosa che l’individuo è, essere commessa, cassiera e poi operaia non racchiude tutto ciò che Ansa è per il film, così come Holappa non può essere definito dal fatto di essere un lavoratore licenziato per il suo alcolismo; entrambi, sono figure di un racconto che cercano di essere anche umani, di avere una complessità che vada oltre ciò che serve all’autore per trasmettere il suo messaggio.
Anche da qui, forse soprattutto da qui, passa il magnifico umanesimo di Kaurismäki e Foglie al vento è l’ultimo, bellissimo tassello di un mosaico di personaggi e storie che guardano ai bassifondi del mondo senza il pietismo di chi li racconta dall’alto né la falsa fierezza di chi prova a dipingere il loro mondo con l’estetica del pauperismo. Si lavora per vivere, si fanno mestieri umili che sono solo un modo per mangiare e se non va bene, si cerca un altro lavoro, tutto quello che accade intorno è la vita, ossia ciò che rende magico il tocco del regista. È in questo ‘intorno’ che c’è il cuore del film, nell’umorismo sognante e a volte stralunato con cui descrive l’amore, nell’ironia che circonda ciò che accade ai protagonisti, ciò che fanno e ascoltano, nel senso di dimessa verità e sottesa bellezza che popola i luoghi che frequentano.
Alcune delle scene più divertenti del film, per esempio, accadono in un pub, e questo getta un ponte con un altro degli alfieri di questo umanesimo degli ultimi di cui Kaurismäki è alfiere, tanto con questo suo ultimo film, quanto con i precedenti, come La fiammiferaia, L’uomo senza passato o L’altro volto della speranza: costui è Ken Loach che in The Old Oak, il suo ultimo lavoro, ha proprio un pub come fulcro del racconto, del conflitto tra la popolazione del quartiere e in questo luogo si svolgono le vite delle persone, nella loro varietà, nei differenti strati emotivi che rendono interessanti personaggi che appaiono per poche battute, perché comunicano una vita che va oltre il motivo per cui Loach sta raccontando quella storia.
È una questione di dignità, di raccontare le lotte che questi personaggi affrontano e le sconfitte che la società appronta per loro, ma senza negarne le gioie, gli interessi, le boccate d’aria e risa che la vita regala oltre le difficoltà; è anche un modo per affrontare quel mondo che li vuole ultimi, ma dal quale non saranno mai vinti. Kaurismäki, e Foglie al vento in particolare, è in un certo senso la versione stilizzata e cinefila, tra Sirk e Chaplin, proprio del cinema di Loach, il quale quando vuole sa come creare commedie irresistibili, piene di gioia popolare come La parte degli angeli o Il mio amico Eric.
Quella stessa dignità, quello stesso respiro popolare che vuole dare vita alla classe operaia mostrandone la ricchezza e non solo la battaglia è al centro del cinema di un altro grande cineasta europeo umanista, il marsigliese Robert Guédiguian, che rispetto ai suoi colleghi del Nord Europa è quello più laterale rispetto all’acclamazione cinefila: eppure, pochi come lui hanno saputo rendere l’intreccio inestricabile tra volontà di emancipazione dalla povertà, quindi lotta di classe e sguardo critico verso il mondo, ed elogio vitale della vita degli umili, o meglio delle persone normali, che fanno lavori normali e soprattutto godono della normalità della vita. Basti pensare che nell’anno in cui i cinema italiani erano dominati dal Titanic, Guédiguian si faceva conoscere da un pubblico non solo festivaliero con Marius e Jeannette, complicata storia di amore tra una cassiera licenziata e il guardiano di un cementificio: il legame con Kaurismäki è evidente, solo che se per il finlandese i numi tutelari sono Ozu e Bresson corretti dallo humour, per il francese c’è il calore pulsante di Pagnol e Renoir, c’è quel senso di vita spontanea e rumorosa che lega L’estaque alla Nuneaton di Loach.
Tre idee di cinema molto diverse tra loro, ma un filo che collega l’Europa cinematografica come un collante, un filo costituito dall’humus del popolo, dalle persone semplici e della loro semplice vita e che il cinema, attraverso l’occhio felice di tre cineasti, rende importanti, anche straordinarie. Perché ridere e piangere, amarsi, andare al cinema e cercare le cose belle dentro il grigiore sono ciò che rende la vita degna di essere vissuta, anche e soprattutto dagli ultimi, che tra una caduta e una rivincita fanno della loro normalità lo scudo con cui proteggersi. Uno scudo che Kaurismäki (e Loach e Guédiguian) sa costruire con la maestria di un geniale artigiano.