Fieramente dalla parte giusta della storia: Ken Loach torna con The Old Oak, dal 16 novembre al Cinema.
Un regista figlio di operai. Qualcuno potrebbe dire che era destino che Ken Loach sarebbe diventato il bardo della gente comune, ma sarebbe un’affermazione superficiale. Da quando il regista inglese ha iniziato la sua carriera negli anni ‘60, come realizzatore per la BBC e come regista cinematografico appartenente alla scuola del “free cinema”, si sono alternate epoche completamente diverse tra loro.
Molti intellettuali e membri dell’industria culturale di quell’epoca che dicevano di stare dalla parte delle persone oppresse, quasi tutti in realtà, si sono col tempo rivelati solo degli opportunisti e nella migliore delle ipotesi hanno finito per vendersi al miglior offerente per mantenere le proprie rendite di posizione.
La filmografia di Ken Loach invece sta lì, oscenamente e graniticamente coerente con i suoi ideali fino al suo nuovo film, The Old Oak, fieramente dalla parte giusta della storia anche quando la storia sembrava finita. Se si ripercorre cronologicamente tutta la sua filmografia si riescono a ricostruire perfettamente tutte le tappe della progressiva repressione, economica e umana, che negli ultimi 40 anni è stata condotta dal sistema politico-economico contro le persone che devono lavorare per vivere.
La lucidità con cui ogni volta e in ogni epoca Ken Loach mette in scena gli effetti della guerra, economica o quella propriamente detta, scatenata dal sistema politico-economico contro le masse è una freccia che trafigge il cuore dello spettatore, come ad esempio fa ne Il vento che accarezza l’erba – film che gli valse la Palma d’oro a Cannes 2006.
È proprio il cuore uno degli elementi fondanti del Cinema di Ken Loach. L’unico regista che, pur parlando di situazioni intrinsecamente politiche ed essendo palesemente schierato, non declama mai le sue idee, non fa comizi, non spiega, ma ci fa capire il suo punto di vista attraverso le storie di vita vera dei propri protagonisti.
Storie al limite, storie che non sembrano neanche sceneggiate per la loro verosimiglianza a quelle che viviamo tutti i giorni. Storie che traggono la loro forza dalla regia invisibile, quasi documentaristica, del suo autore e dalla scelta di non usare quasi mai attori professionisti.
Facce vere di persone vere, che fanno immergere lo spettatore nella narrazione sin dai primi minuti delle sue pellicole e che fanno immedesimare lo spettatore proprio in virtù del fatto che, trattandosi di attori avulsi dallo star system, sembra di guardarsi allo specchio.
Anche se Ken Loach ogni volta mette in scena persone completamente diverse, che fanno un tipo di lavoro specifico, questo non impedisce a chi guarda il film di identificarsi, perché il focus non è mai sul tipo di lavoro, ma sul lavoro in quanto tale. Il lavoro è un tema completamente scomparso dalle storie raccontate dall’industria culturale e dell’intrattenimento, eppure la maggior parte del tempo di vita di una persona ruota proprio intorno a quello, sia che uno il lavoro lo abbia o lo abbia perso – come nel caso del protagonista del film che gli valse la seconda Palma d’oro Io, Daniel Blake.
Il regista inglese, al contrario della grande maggioranza dei registi contemporanei piccolo borghesi che mettono in scena i problemi della loro classe di appartenenza e quindi totalmente alienati da quelle che sono le reali questioni che influenzano la vita delle persone normali, sa bene che il tempo di lavoro è quello che occupa la maggior parte della vita di una persona che non ha altre fonti di reddito. Questo tempo sempre più lungo, sempre più opprimente e pagato sempre meno è la causa principale della frantumazione dell’essere umano, della sua famiglia e della società, come è raccontato per esempio in modo straziante in Sorry, we missed you, il penultimo film di Ken Loach.
Ma i suoi film, proprio in virtù del raccontare il progressivo disfacimento della vita delle persone e quindi della società, non possono che finire in modo tragico. Le pellicole di Ken Loach non sono mai consolatorie, perché lo scopo è quello di smuovere le coscienze, compito totalmente agli antipodi rispetto a quello che si propone il Cinema dei suoi colleghi più giovani. La speranza è un lusso al quale le persone dei ceti medio bassi non hanno diritto di accedere. Lusso che però l’autore inglese si è voluto in parte concedere per il suo ultimo film come commiato.
The Old Oak è il nome del pub di cui è proprietario TJ, situato in una piccola cittadina inglese in cui da qualche tempo stanno arrivando profughi siriani. La comunità, depressa e impoverita dalle nefaste politiche economiche degli ultimi anni, non accetta la presenza di questi rifugiati, rendendosi protagonista di odiosi episodi razzisti. TJ, ricordandosi degli insegnamenti del padre, ex minatore e protagonista dei grandi scioperi degli anni ‘80, cercherà di ritrovare quella solidarietà innata propria della classe lavoratrice.
The Old Oak è però anche il titolo del film ed è questo suo identificarsi con il pub dove si cercano di unire gli ultimi e i penultimi a essere la chiave di lettura del film, esemplificata da una frase che dice TJ verso la fine: “Ce la prendiamo sempre con chi sta sotto e non con chi sta sopra, perché è più facile”.
Ancora una volta, alla veneranda età di 87 anni, Ken Loach mantiene la barra a dritta e ci indica il nord sulla bussola, individuando perfettamente le cause di uno dei problemi principali dell’Europa contemporanea: l’odio verso gli immigrati.
Al contrario di quello che fanno di solito i mezzi d’informazione, cioè deumanizzare queste persone, Loach restituisce loro dignità e ancora una volta mette lo spettatore di fronte a uno specchio, dicendogli che queste persone sono più simili a lui di quanto non siano quelle che vorrebbero fargliele odiare. La strada per l’integrazione è però lunga e difficile nella cittadina del pub The Old Oak e passa ancora una volta dai lavoratori e dalla presa di coscienza della loro forza trasformatrice. Questa è la speranza, o meglio, l’indicazione che Ken Loach decide di sottolineare nella sua nuova opera.
Una speranza che risuona ancora forte, gridata da quella che nel Cinema contemporaneo è forse l’unica voce chiara e sincera rimasta a difesa di tutti noi: la gente.
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