Dal 2 febbraio sarà in sala Decision to leave, il nuovo film dell’acclamato Park Chan-wook. Francesco Crispino analizza la regia del cineasta coreano, e le sue scelte narrative efficaci e suggestive.
Premiata a Cannes proprio per la miglior regia, la nuova opera dell’autore sudcoreano Decision to leave è caratterizzata da una narrazione travolgente, millimetricamente sostenuta da soluzioni espressive tanto audaci quanto seducenti.
Quella di Park Chan-wook è infatti una regia stratificata e declinata su più livelli, che si dimostra particolarmente felice sia per quanto riguarda l’inedita collaborazione con il direttore della fotografia Kim Ji-yong, sia per ciò che riguarda l’ottava (sugli undici lungometraggi diretti dall’autore) con il montatore Kim Sang-bum.
Nel primo caso infatti essa produce un fecondo scarto nel lavoro di messinscena che fin dagli esordi distingue l’originale idea di cinema di Park. Sia nell’affilato lavoro all’interno dell’inquadratura — qui sottoposta a composizioni inconsuete, a un continuo quanto elusivo gioco di rispecchiamenti (gli specchi e le superfici riflettenti vi assumono sempre un ruolo decisivo), a pirotecnici giochi di fuoco oltre che a un efficace rapporto con il fuoricampo — sia nei chirurgici movimenti di macchina che la supportano, e che traducono con raffinatezza visiva tutta l’ambiguità della narrazione proprio mentre ne forniscono le chiavi per l’interpretazione.
Un ininterrotto flusso di soluzioni espressive che si propone come un vero e proprio saggio di regia di linguaggio audiovisivo.
Nel secondo caso la collaborazione con il sodale Kim Sang-bum sembra invece spingere ancor di più le sperimentazioni narrative che da sempre connotano il cinema dell’autore sudcoreano.
Il ritmo dell’affabulazione di Decision to leave è infatti organizzato come un turbinoso flusso nel quale il presente della vicenda è continuamente mescolato con flash-back e flash-forward, connotato da un continuo slittamento tra l’oggettività della rappresentazione e la soggettività dell’interpretazione, disseminato di false piste, di indizi nascosti e di Revolving door che, esattamente come succede all’ispettore protagonista Jang Hae-joon, attraggono lo spettatore per poi farlo ritrovare nello stesso punto con più dubbi e meno certezze.
Un progetto di regia che informa completamente l’opera, fondato su un ingegnoso intreccio e imperniato sulla stretta identificazione impostata da Park tra lo spettatore e il protagonista-detective, il cui centro discorsivo è rappresentato dall’atto del vedere.
Un atto che infatti è spesso evocato sia dagli elementi che compongono la messinscena (come ad esempio il collirio cui ricorre sovente Jang Hae-joon), sia dalla scelta del punto di vista (con il frequente utilizzo dell’inquadratura soggettiva), proprio per sabotarlo, ovvero per metterne in crisi i meccanismi che lo sovrintendono e di conseguenza la comprensione della realtà cui essi sono legati. Mettendone così in evidenza la fallacia e l’illusorietà.