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Lunga vita al bianco e nero! Un Grand Tour in 5 film di Lucky Red

Grand Tour è solo l’ultimo di una serie di film in bianco e nero distribuiti Lucky Red, parte di un vero e proprio rinascimento tutto recente.

Di Carlo Giuliano*

Una volta Tim Burton ha detto che i film dovrebbero essere girati a colori solo in caso di specifiche necessità. In caso contrario, dovrebbero essere tutti in bianco e nero. Questa convinzione gli venne mentre girava Ed Wood nel lontano 1994 e da allora, nell’arco di trent’anni, abbiamo assistito a un vero e proprio fenomeno di Rinascimento del bianco e nero. 

L’affermazione di Tim Burton farà certamente strano a chi, nel bianco e nero, potrebbe vedere quasi una “limitazione”. D’altronde, noi vediamo a colori. D’altronde, il cinema o la televisione nascevano in bianco e nero per limiti tecnici, più che per necessità. Introduzioni come il colore o il sonoro rappresentarono quindi un avvicinamento del linguaggio cinematografico a quello del reale. Ma siamo proprio sicuri che questo avvicinamento, questa tendenza asintotica a una totale aderenza tra finzione e realtà, sia qualcosa che vada sempre auspicato?

Negli ultimi trent’anni e in modo vertiginoso più di recente, grandissimi film ci hanno dimostrato che il bianco e nero non era solo la scelta preferibile all’occhio, ma anche propedeutica al linguaggio. Per dirne una, il nuovo millennio veniva aperto dai Fratelli Coen con quella magistrale decostruzione del noir che fu L’uomo che non c’era, con quel “bellissimo bianco e nero” che invece – pensate – fu applicato dal maestro della fotografia Roger Deakins perché si accorse che funzionava meglio. Il film era stato pensato e girato a colori, fu un caso fortuito.

Ma più di recente ci sono stati film come The Lighthouse di Robert Eggers e Mank di David Fincher; l’uno in omaggio al cinema di Murnau, l’altro a quello di Orson Welles; entrambi, attraverso la grana, i chiaroscuri e i filtri scelti, capaci di riportare lo spettatore a un’epoca cinematografica del passato. Un viaggio nel passato intrapreso ora anche dal regista Miguel Gomes per il suo Grand Tour, al cinema dal 5 dicembre. Solo l’ultimo di una serie di bellissimi film in bianco e nero distribuiti negli anni da Lucky Red. Ripercorriamone alcuni.

Il nastro bianco (2009) di Michael Haneke

Era la prima Palma d’Oro per Michael Haneke, che solo tre anni dopo l’avrebbe doppiata con Amour diventando uno dei pochi registi della storia a ottenere due volte il più alto riconoscimento di Cannes, e a così breve distanza. Nel 2009, Haneke tornava a confermarsi un uomo capace di decostruire le sue origini patriarcali e geografiche, mostrando la nascita della mentalità pre-nazista e affondandovi le radici in contrasti e violenze reciproche presenti nella Germania contadina fin da prima della Grande Guerra. 

Siamo infatti nel biennio 1913-1914, in un piccolo paesino del nord della Germania protestante in cui iniziano a verificarsi inquietanti e brutali fenomeni: il fienile del barone locale viene dato alle fiamme; una finestra lasciata aperta rischia di causare la morte di un neonato; sia il figlio disabile di una levatrice che quello del barone vengono torturati e seviziati. È lo scontro di vari mondi bifronti – ricchi e poveri, uomini e donne, genitori e figli – destinato a deflagrare di lì a un decennio. E il bianco e nero di Christian Berger restituisce alla perfezione questi contrasti, la miseria e le asperità che avrebbero dato origine a un disastro collettivo. 

Ida (2013) di Paweł Pawlikowski

Se il film di Haneke avrebbe ottenuto nel 2009 il Golden Globe come Miglior Film Internazionale – rimarrà come uno dei più premiati dell’anno – quattro anni dopo sarà il polacco Paweł Pawlikowski a portarsi a casa il Premio Oscar per il Miglior Film Straniero. Ida è un film che torna al dramma del nazismo e sceglie nuovamente il bianco e nero per raccontarlo, ma stavolta dal lato opposto, dei sommersi. Il film prende infatti il nome dalla protagonista, una giovane orfana prossima a prendere i voti in convento.

Prima che ciò avvenga, Ida viene invitata dalla madre superiora a visitare la sua ultima parente in vita, una lontana zia che le rivelerà le sue origini. Ida è infatti un’ebrea sopravvissuta al nazismo e questa rivelazione la porterà a cercare i resti della sua famiglia e a mettere in dubbio la sua vocazione al Cristianesimo. Qui il bianco e nero scelto da Ryszard Lenczewski e Łukasz Żal riporta a una dimensione di privazione e contrapposizione, di luci e oscurità, ma con una diversa limpidezza di grana, di chi vuole far prevalere le prime sulla seconda. Un chiaroscuro che mescola la vita che fu, quella del possibile e quella che sarà: il bianco, il nero e tutto quel grigio che c’è nel mezzo, ma spesso dimenticato. 

Nebraska (2013) di Alexander Payne 

Sempre nel 2013 esce un film che guarda all’altro lato dell’Atlantico, opera di uno dei più grandi registi americani del cinema intimista recente: Alexander Payne. Come nell’ultimo The Holdovers, il suo Nebraska è ambientato in un’America innevata, che già dal titolo e nei colori vuole far rabbrividire dal freddo, interiore prima ancora che climatico. Protagonista un formidabile Bruce Dern in quello che è forse il suo miglior ruolo di recente carriera, premiato infatti a Cannes per la Miglior interpretazione maschile.

 Lui interpreta Woody Grant, un vecchio infame e alcolizzato, scorbutico padre di famiglia che non ha quasi più rapporti col figlio. Un giorno si convince erroneamente di aver vinto un milione di dollari alla lotteria e si metterà in cammino dal Montana al Nebraska per riscuotere la somma, in un viaggio a piedi in cui coinvolgerà suo malgrado anche il figlio. Nebraska ci ricorda quanto l’America si presti bene alla monocromia emotiva: parte cupo, oscuro, pieno di ombre come sempre nella penombra della depressione viene inquadrato Dern, per poi guadagnare luce minuto dopo minuto. Ma la luce è da ritrovare nei rapporti umani, perché quella all’orizzonte non va più ricercata nei rossi tramonti della grande distesa americana, che purtroppo si sono scoloriti da tempo.

Cold War (2018) di Paweł Pawlikowski

Se il bianco e nero ti è venuto bene una volta, perché non rifarlo, e con lo stesso direttore della fotografia per giunta? Cinque anni dopo Ida, Paweł Pawlikowski richiama Łukasz Żal per il suo Cold War. Entrambi saranno candidati agli Oscar di quell’anno, e il film con loro: Miglior Regia, Miglior Fotografia e Miglior Film. Cold War racconta di Wiktor e Zula, un pianista e una cantante innamorati l’uno dell’altra, che si perderanno e ritroveranno in una storia d’amore impossibile sullo sfondo della Polonia lungo tutto il corso della Guerra Fredda. Considerato il successo di Ida, si potrebbe pensare che il bianco e nero di Cold War fosse stata la scelta di partenza per Pawlikowski. E invece non fu così: dimenticate l’amenità iniziale e prestate orecchio alle parole del regista.

 

Non volevo ripetermi, in un primo momento avevo pensato di girare a colori, poi mi sono reso conto che non avrei potuto, perché non avevo idea di quali tonalità scegliere. A differenza dell’America, che negli Anni ’50 era fatta tutta di colori saturi, la Polonia aveva sfumature indefinite, oscillanti tra il grigio, il marrone e il verde. Era distrutta, le città erano in rovina, in campagna non c’era elettricità, la gente vestiva con tinte scure e grigie. Mostrare tutto questo con colori vividi avrebbe significato fare un film completamente falso. Il bianco e nero mi è sembrato più onesto”. Uno di quei casi, insomma, in cui l’applicazione di un filtro “falsante” ha restituito molto di più la verità di un colore. Perché la guerra è grigia, era la Guerra Fredda. Per questo film, Pawlikowski ottenne lo stesso premio andato quest’anno all’ultimo regista della nostra rassegna.

Grand Tour (2024) di Miguel Gomes

Come Paweł Pawlikowski fu eletto Miglior Regista dalla giuria di Cannes 71, all’ultimo Cannes 74 il Prix de la mise en scène è andato al portoghese Miguel Gomes per il suo Grand Tour. Un film che vive per binomi e quindi binario in tutti i sensi della parola. C’è infatti un treno che deraglia, in Grand Tour, un film diviso in due come due sono i viaggi della coppia di protagonisti: procedono nella stessa direzione ma a scoppio ritardato, e per ragioni e “versi” opposti. È la storia di come Edward, un funzionario dell’Impero Coloniale Britannico del 1918, si metterà in fuga dalla Birmania attraverso tutta l’Asia per sottrarsi al matrimonio con la sua promessa, la londinese Molly appena giunta in Oriente. E di come lei lo inseguirà. E di tutti gli incontri che faranno lungo la strada.

In una lunga intervista, Miguel Gomes ha spiegato che il primo incontro che si prefiggeva in Grand Tour era un appuntamento con la bellezza. E come per molti altri, il bianco e nero (rispetto al colore) è semplicemente ciò che meglio era in grado di veicolare la purezza di quella bellezza. Insomma, Miguel Gomes è uno che ti risponde che il bianco e nero è semplicemente bello, che non deve avere per forza una spiegazione, e va bene così. Ma dall’altro, c’era l’intento chiaro e dichiarato di costruire un film che viaggiasse sul binario della finzione, che prendesse una distanza netta dal mondo reale e vivesse tutto all’interno del mondo del cinema: “Il bianco e nero è un segnale in più che non ti stai interfacciando con la vita reale, che quella è una finzione, è il cinema. È un filtro, e questo è sempre ciò che mi guida”.

Se vi interessa, recuperate la nostra intervista a Miguel Gomes, ma soprattutto andate a vedere Grand Tour, al cinema.

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*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.
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Rangoon, Birmania, 1918. Edward, un funzionario dell’Impero britannico, fugge dalla fidanzata Molly il giorno del suo arrivo per il loro matrimonio. Durante il viaggio, però, il panico si trasforma in malinconia. Contemplando il vuoto della sua esistenza, il codardo Edward si chiede che fine abbia fatto Molly… Nel frattempo Molly, decisa a sposarsi e stranamente divertita dalla fuga di Edward,…
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