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Hayao Miyazaki
Un mondo di sogni animati
Perché Totoro è Totoro

Il mio vicino Totoro di Hayao Miyazaki ti aspetta al Cinema, dal 10 al 16 agosto, nella rassegna Un mondo di sogni animati. Partiamo alla scoperta di questo capolavoro con l’approfondimento firmato da Asuka Ozumi.

Di Asuka Ozumi*

Parlare di un film così iconico e noto a livello planetario come Il mio vicino Totoro (al cinema con Lucky Red, per Un mondo di sogni animati, dal 10 al 16 agosto) è una piccola impresa. Difficile aggiungere qualcosa alle emozioni che un capolavoro come questo – e la parola non è certo casuale – suscita in chiunque lo guardi. A quel senso di meraviglia che fa provare, indipendentemente dall’età, dal genere e dalla provenienza geografica.

Dire che è un film noto sarebbe riduttivo: sono abbastanza sicura che quasi tutte le persone che conosco lo abbiano visto. E non parlo solo dei fan degli anime, manga o cultura giapponese: Totoro è diventato un patrimonio collettivo, costruito su immagini straordinarie, personaggi indimenticabili, caratteristiche visive immediatamente riconoscibili. E, soprattutto, sentimenti.

Grazie a internet e alle date dei viaggi in Giappone segnate negli album delle fotografie dell’infanzia ho ricostruito il mio primo incontro con Totoro.

Un viaggio nei ricordi alla ricerca di Totoro

12 luglio 1991. Mi trovavo nel Kyūshū con mia madre e mia sorella, che all’epoca aveva quasi quattro anni. Il mio vicino Totoro veniva trasmesso all’interno del contenitore Kin’yō Roadshow: un appuntamento settimanale della prima serata di venerdì, che ospita e ospitava il cinema in tutte le sue forme, dai blockbuster americani ai film d’animazione, così di successo da essere tuttora in onda.

Ed è stato amore, o almeno penso: in tutta onestà non ricordo l’esatta sensazione. Del resto, sono passate più di tre decadi. Però quel che so per certo è che è stata la prima visione di una lunga serie, l’ho poi rivisto decine di volte. Sicuramente già trentadue anni fa aveva lasciato dentro di me un segno, e di questo sono certa. A Milano viveva con noi un gatto nero, che aveva ovviamente un suo nome. Ma lo avevamo ribattezzato Totoro: un po’ perché era piuttosto pingue, un po’ perché aveva un’aria non proprio intelligente, seppur simpatica.

La mia mascotte Totoro

Oggi Totoro è il personaggio icona dello Studio Ghibli per eccellenza: è lui che compare nei titoli di testa di tutte le pellicole e nel mondo sono stati prodotti milioni di peluche, portachiavi e altri gadget a tema, arrivando fino alle recenti collaborazioni con brand luxury come Loewe. Eppure, Totoro è un progetto che non ha avuto una vita facile, e il raggiungimento del successo planetario è stato un traguardo arduo e ricco di ostacoli.

L’idea è rimasta nei meandri della mente di Hayao Miyazaki per molti anni prima di venire effettivamente alla luce. Una bimba sotto la pioggia che aspetta il papà alla fermata dell’autobus e che per la prima volta incontra un curioso gigante peloso, una corriera a forma di gatto carica di creature fantastiche: sono questi alcuni dei primi bozzetti embrionali ad acquerello realizzati dal Maestro, che riportano come data il 1975.

In quel momento il regista propone il progetto alla Nippon Television, senza successo, e lo accantona. Solo dopo il successo di Nausicaä della Valle del vento e Laputa – Castello nel cielo, Miyazaki ci riprova, ma nessuno sembra volergli accordare fiducia: tutti sono convinti che sarà un fiasco al botteghino. Dopo vari, faticosi tentativi di trovare dei finanziatori e un distributore, lo Studio Ghibli decide di portare avanti in parallelo due progetti: Il mio vicino Totoro, con la regia di Hayao Miyazaki, e La tomba per le lucciole, firmato da Isao Takahata. Due film d’animazione che sarebbero stati proiettati insieme, uno dopo l’altro, secondo il sistema della “doppia programmazione” nato negli anni Trenta negli Stati Uniti e che in Giappone ha ottenuto una certa popolarità durante il periodo Shōwa (1926-1989).

La sfida tra Miyazaki e Takahata

Nel saggio I geni dello Studio Ghibli, il produttore cinematografico Toshio Suzuki racconta come i due registi si siano contesi animatori e collaboratori, ma soprattutto di come Takahata abbia per primo ignorato l’indicazione iniziale di restare entro i sessanta minuti per il proprio film e Miyazaki, per non essere da meno, abbia deciso di allungare il suo.

Nonostante il plauso della critica e numerosi riconoscimenti, il debutto al cinema del 1988 è comunque un fiasco. Gli introiti sono molto al di sotto di quelli di Nausicaä della Valle del Vento: al box office Totoro e La tomba per le lucciole totalizzano in sei settimane quanto La città incantata avrebbe fatto solo nel primo giorno in sala, poco più di una decina di anni dopo.

Difficile immaginare il successo che avrebbe avuto decenni dopo, un successo graduale che è arrivato, almeno in madrepatria, grazie ai passaggi televisivi di Nippon Television, all’home video e al merchandising. Nel 1990, a due anni dalla prima uscita in sala, l’emittente tv indice un concorso a premi per ricevere dei peluche di Totoro, ricevendo complessivamente oltre due milioni di cartoline di partecipazione. Un trionfo.

Come nasce un successo come Il mio vicino Totoro?

Mi sono chiesta in che modo abbia conquistato il pubblico. Da mamma, l’ho rivisto insieme ai miei figli, prima l’uno e poi l’altro. E ho capito, anche attraverso i loro occhi. Rispetto ad altri film dello Studio Ghibli, Il mio vicino Totoro, insieme a Ponyo sulla scogliera, si rivolge a un pubblico infantile. Totoro, nello specifico, ha una trama molto lineare, a prova di bambino. Le sorelline Satsuki e Mei traslocano in una vecchia casa di casa di campagna insieme al padre, mentre la madre è ricoverata in ospedale, un riflesso della tubercolosi della madre del regista, una nota autobiografica spesso presente nelle sue opere.

Due eventi traumatici, di distacco e di sofferenza, che le bambine affrontano però con gioia e spensieratezza, facendosi guidare dall’entusiasmo per le piccole cose, dal desiderio della scoperta, dalla capacità di vedere oltre e al di là. E, insieme a loro, sin da subito chi guarda familiarizza con le creature fantastiche che popolano la pellicola – prima i Makkurokurosuke, i “Nerini del buio” e poi l’adorabile pelosone gigante – che sono recepite con calore ed entusiasmo, in un’accoglienza dell’Altro che oggi si può definire “inclusiva”.

Il pubblico è portato a operare una sospensione del giudizio e ad abbracciare la meraviglia grazie al privilegio dello sguardo innocente dell’infanzia. Ci sono dei momenti di tensione, quasi un guizzo di terrore, specialmente per i più piccoli: la prospettiva della morte della madre, il ritrovamento del sandalo dello stagno, che fa temere che qualcosa di grave, di indicibile possa essere successo a Mei.

All’interno della narrazione, tuttavia, prevalgono l’ottimismo e la positività. E il viaggio emotivo delle bambine – e degli spettatori e spettatrici – si conclude con la speranza e con il suono di risate.

Dopo ambientazioni straniere e mondi post-apocalittici, per Miyazaki Totoro è un ritorno a casa, al Giappone, a un passato in cui ancora non esiste la televisione, ai paesaggi dell’infanzia.

Una storia figlia del suo tempo

Il film viene concepito negli anni della bolla economica ed è ambientato in una società in cui la vita si fonda sulla solidarietà del vicinato, contro l’anonimato della vita urbana delle metropoli. Alberi, foglie, colline e spiriti della foresta convivono in armonia con l’uomo in una sorta di animismo ambientalista.

Come viene raccontato in uno stupendo libro illustrato dal titolo Totoro no umareta tokoro (I luoghi in cui Totoro è nato), edito dallo Studio Ghibli con la supervisione di Hayao Miyazaki per i tipi di Iwanami Shoten, gli scenari rurali sono ispirati a Tokorozawa, luogo nei sobborghi di Tokyo in cui il regista vive da cinquant’anni, senza il quale Totoro non sarebbe mai esistito. Nella natura che il regista ritrae nel film, si coglie un’urgenza quasi tangibile di bloccare sullo schermo ciò che era e che è ora è a rischio a causa dell’urbanizzazione. Quello che Totoro fissa in modo eterno è il concetto di furusato, il paesaggio di campagna del luogo natìo, che scatena in chi è un po’ più attempato il sentimento della nostalgia di un passato che non potrà tornare e forma nuovi immaginari collettivi in chi è più giovane.

Ed è questa straordinaria capacità di parlare le parole di ogni età che rende questo film così unico: anche quando ormai si conosce a memoria quasi ogni battuta e l’ennesima visione parrebbe noiosa e scontata, a tratti lo sguardo si ferma perché la magia di Totoro continua a dialogare con noi, a tratti perché ancora ci coglie quella speciale meraviglia.

Perché Totoro è Totoro

Ho interpellato i miei figli, che oggi hanno diciotto e undici anni, su Totoro.

Il primo – adolescente abitualmente pragmatico e razionale – mi ha risposto che la sua caratteristica principale è la capacità di operare la sospensione dell’incredulità a prescindere da quanti anni si hanno. Riporto per intero lo scambio di battute con il secondogenito, che racchiudono un po’ quello che in fondo pensiamo tutti.

«Ti piace Totoro
«Certo.»
«Perché ti piace?»
«Perché Totoro è Totoro. Fa parte della mia vita.»

Perché una volta che entra nella vita di ciascuno di noi, Totoro resta.

Post-scriptum cinefilo: osservando attentamente la locandina del film con la scena alla fermata dell’autobus, si nota che la bambina che regge l’ombrello è una fusione di Satsuki e Mei.

Inoltre, per i super fan dello Studio Ghibli che si trovano in Giappone o hanno in programma un viaggio a breve, oltre al Ghibli Museum a Mitaka e al Ghibli Park nella prefettura di Aichi, segnalo l’interessante mostra “Kin’yō Roadshow e lo Studio Ghibli”, inaugurata il 29 giugno e visitabile fino al 24 settembre al B&C Hall sull’isola artificiale Tennozu a Tokyo, che sarà poi replicata a Toyama dal 7 ottobre 2023 al 28 gennaio 2024.

* Asuka Ozumi nasce a Milano da genitori giapponesi. Dopo il dottorato di ricerca presso l’Università degli Studi di Napoli l’Orientale, dal 2005 si dedica alla traduzione di manga per i maggiori editori italiani, affiancando all’editoria l’insegnamento del giapponese. Attualmente si occupa della direzione editoriale per Dynit Manga ed è docente a contratto presso l’Università di Torino. Collabora inoltre con numerose case editrici come consulente editoriale e traduttrice di narrativa e non fiction.
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