Shining torna al cinema per 3 giorni in versione restaurata in 4K: ecco 10 curiosità che ne raccontano la follia, quella produttiva.
Shining, il capolavoro horror firmato Stanley Kubrick e senza dubbio in qualunque classifica sia stata redatta sui più grandi film della storia del cinema, torna nelle sale da domani per una tre giorni evento in versione integrale restaurata in 4K. Se non lo sapevate, sappiatelo. E tornatelo a vedere, il 7-8-9 ottobre.
Shining è un film su cui si è detto e scritto di tutto, che per la sua portata sfugge alla possibilità stessa di nuove esegesi. Ma Shining è anche un film che si racconta tanto attraverso il suo set, attraverso centinaia di curiosità e retroscena che forse conoscete già ma che nondimeno sono specchio della follia e dell’esaurimento dei suoi protagonisti.
Mai come in questo film Stanley Kubrick portò agli estremi le sue ossessioni registiche, nella direzione attori ma anche a livello potremmo dire “numerico”. Fu un film di ossessione matematica, in cui l’obiettivo dichiarato era creare una dimensione di follia assolutamente reale che generasse e alimentasse quella del racconto.
Per chi ci lavorò non fu affatto piacevole – ben noti gli effetti psicologici su Shelley Duvall, ma non solo lei – e c’è chi obietta che approcci registici di questo tipo siano necessari o anche solo proficui. Che insomma Kubrick potesse ottenere gli stessi risultati senza tirannizzare chi lavorava con lui. Non possiamo saperlo. Sappiamo solo che Shining è un capolavoro e possiamo solo raccontarlo per ciò che è stato girarlo. Lo faremo in numeri, uno per ogni curiosità.
Partiamo dalla scena più famosa di tutte, quella in cui Jack Torrance (Jack Nicholson) tenta di sfondare la porta del bagno in cui si nasconde Wendy (Shelley Duvall). Nonostante la durata della sequenza e il fatto che comportasse ogni volta la distruzione di una nuova porta, questa è solo una delle tante in cui Kubrick richiese decine e decine di ciak, per un totale di intere settimane di riprese. Il numero è calcolato in oltre 60 take, tante quante furono le porte distrutte da Jack Nicholson.
Inizialmente il materiale doveva essere facilmente frangibile, ma Nicholson aveva prestato come vigile del fuoco volontario e le sfondava con troppa facilità, quindi vennero sostituite con porte vere. L’obiettivo di Kubrick era portarlo all’esaurimento, voleva vedere nei suoi occhi il desiderio di fare a pezzi tutti sul set con quell’ascia. Questo si vede bene in un video BTS rimasto famoso, in cui Nicholson appare fuori di sé, tirando fendenti al vuoto con i membri della troupe che si tengono alla larga, per paura di essere colpiti.
Sono tantissime le scene di Shining che richiesero decine e decine di ciak. Abbiamo citato la sequenza del bagno, ma persino la semplice inquadratura dall’alto in cui una semplicissima palla da tennis rotola fra i giocattoli di Danny Torrance (Danny Lloyd) richiese 50 take. Avete capito bene, per una palla che rotola. Ma sembra che in termini di ciak, vita più difficile l’abbia avuta Scatman Crothers, che interpreta il capocuoco Dick Halloran. Per la scena del suo dialogo sulla luccicanza avuto con Danny, si raggiunse un record (per il film, e a dirla tutta per qualunque set cinematografico).
148 furono le volte in cui Kubrick chiese a Crothers di ripetere la scena. E voi pensate che la colpa fosse dell’inesperto Danny Lloyd? Affatto, il piccolo era l’unico tenuto in palmo di mano dal regista. Crothers fu portato letteralmente all’esaurimento, tanto che sul set successivo a cui prese parte scoppiò a piangere in faccia al regista dalla commozione. Quel set era Bronco Billy e il regista era Clint Eastwood, noto a Hollywood per richiedere un solo take agli attori.
Rare eccezioni in cui a Kubrick bastarono solo una manciata di take pure esistono, ma quella che vi sorprenderà di più è la sequenza dell’ascensore che si apre liberando una cascata di sangue. È una delle scene più iconiche di Shining e, inspiegabilmente, anche una delle più terrorizzanti a sentire il pubblico. Molte cose sarebbero potute andare male su quella scena, nella mente di Kubrick. Magari il sangue non fluiva nel modo giusto, o una goccia schizzava troppo in alto. Letteralmente qualunque cosa.
Sorprendentemente (probabilmente anche per una questione di mezzi) la scena richiese solo 3 ciak. Ma ci pensano i tempi richiesti dalla preparazione a ristabilire la “normalità”: l’allestimento richiese 9 giorni interi perché Kubrick si lamentava che il sangue “non sembrava sangue” e pare che l’intera ideazione della scena, solo a livello teorico, richiese un anno, cioè quanto durarono tutte le riprese. È quindi ovvio che nel momento in cui la Motion Pictures Association (MPA) vietò a Kubrick l’utilizzo di sangue nel trailer, lui li convinse che si trattava di acqua arrugginita – non nel senso di prop, ma proprio che la scena mostrasse solo acqua arrugginita – e ottenne il lasciapassare.
Per una volta, un numero che non c’entra con l’ossessione, ma con uno dei tanti modi in cui l’ossessivo Stanley Kubrick rivoluzionò invece regole filmiche scolpite nel marmo da anni. Una di queste è la regola cosiddetta dei “180 gradi”, una di quelle create dal cinema per non “confondere lo spettatore” e che i registi seguono pedissequamente (proprio quel genere di regole che Orson Welles ruppe in quantità sul set di Quarto Potere). Nel caso dei 180 gradi, è una regola che riguarda la libertà di movimento della cinepresa in presenza di due soggetti collocati nella stessa scena.
La prima inquadratura della sequenza vede i due attori posizionati rispettivamente l’uno a sinistra e l’altro a destra dello schermo, non importa se per un campo-controcampo o qualunque altro effetto. La regola dei 180 prescrive che per quante angolazioni possa cambiare la camera nel corso della sequenza, non possa mai invertire i personaggi rispetto alle loro posizioni originali (in gergo si dice “oltrepassare la linea”), perché la posizione di ciascuno indica un preciso significato psicologico e di rapporto di potere, che non si devono confondere. Bene, Kubrick la oltrepassa eccome quella linea nella scena del bagno rosso in cui Jack incontra Mr. Grady, il precedente guardiano dell’hotel che fece a pezzi le figlie gemelle. La confusione è voluta è ricercata, è solo uno dei tanti espedienti di foreshadowing (o prefigurazione) di cui è disseminato il film per dirci che la vicenda omicida di Grady diventerà anche quella di Torrance. Sono la stessa persona.
La stanza 237 dell’Overlook Hotel assume un significato particolarmente importante in Shining. Danny è il primo a imbattervisi e Jack farà luce sulle inquietudini del figlio andando a perquisirla, salvo trovarci una donna in decomposizione nel bagno (l’ennesimo bagno) dalle pareti smeraldo. In realtà tutta la storia dell’hotel è una grande metafora che sta a rappresentare il subconscio di Jack e ciascuna di quelle stanze racchiude un segreto recondito, un agghiacciante delitto. Aprire quelle porte – lasciare cioè che i delitti immaginari che abitano la mente di uno scrittore sconfinino nella realtà – significa far germogliare in lui come un cancro, l’ossessione di voler fare a pezzi la sua stessa famiglia.
Diversi sono i numeri ricorrenti all’interno di Shining e la stanza 237 è stata talmente oggetto di discussione da dare il titolo a un documentario del 2012 che indaga proprio sui significati occulti e complottisti che (si dice) Kubrick avrebbe nascosto del film. Si arriva a mettere in discussione l’Allunaggio, ma questa è un’altra storia. Ciò che interessa noi è che nel romanzo di Stephen King la stanza era la numero 217, ma il responsabile del Timberline Hotel che presta la facciata al film (gli interni furono ricostruiti in studios), chiese a Kubrick di usare un’altra numerazione per paura che i futuri ospiti non avrebbero più alloggiato nella 217. Ovviamente il risultato fu l’opposto e il Timberline, già monumento nazionale dell’Oregon, accrebbe ulteriormente la propria fama dopo l’uscita del film.
“All work and no play makes Jack a dull boy”: questa la frase simbolo di Shining che sta a rappresentare il blocco, l’inazione e la follia crescente di Jack. La moglie Wendy trova queste parole scritte all’infinito e il loro significato letterale è “Tutto lavoro e niente svago rendono Jack un ragazzo noioso”, un proverbio anglosassone sui danni del solo lavorare. Per le versioni estere vennero preparate inquadrature con proverbi “nazionali” personalizzati: in quella italiana c’è il famoso “Il mattino ha l’oro in bocca”, che però assume significato opposto, incita a un’operosità che Jack non sembra trovare.
Bene, c’è qualcuno che impazzì davvero a scrivere tutte quelle pagine il cui numero è calcolato in circa 400, a giudicare dall’altezza della pila: la povera segretaria di Kubrick, che a giudicare anche da altre curiosità sul regista deve averne passate di ogni. Passò settimane, se non mesi a battere a macchina tutte e 400 quelle pagine. Se ve lo state chiedendo, sì, nel 1980 esistevano già le fotocopiatrici. Per fortuna le versioni estere richiedevano solo un paio di pagine tradotte e non l’intera pila, altrimenti povera lei. Ma qualcosa mi dice che se le avesse chiesto anche quello, nessuno oggi ne rimarrebbe stupito.
Forse il nome di Saul Bass non vi dirà nulla, ma dovrebbe. Perché Saul Bass è stato una delle figure più influenti nell’immaginario cinematografico americano di tutto il secolo scorso. Voi non lo sapete (o forse sì), ma cambiò il modo in cui guardiamo i film. Chi era? Un grafico e illustratore. Per capirci, fu l’uomo che impose l’idea (ormai largamente diffusa, anzi principale e primo strumento di marketing e brandizzazione dei film) secondo cui l’identità di una pellicola dovesse passare già dal font del suo titolo o dalle animazioni dei titoli di testa. Per capirci, il modo in cui i credits in apertura di Psycho vengono tagliati a metà come da una lama, prefigurando quello che sarà il cuore del film, fu un’idea di Saul Bass. Tutte le geniali locandine di Hitchcock, a dirla tutta, furono un’idea di Saul Bass.
Con Kubrick aveva lavorato già vent’anni prima, sviluppando i titoli di testa di Spartacus. Sua è invece la prima, famosissima versione della locandina di The Shining, quella tutta gialla in cui giganteggia, semplicemente, il logo font del titolo con due occhi sbarrati che fanno capolino dalla T iniziale. Bene: Kubrick, noto per supervisionare ogni singolo possibile aspetto laterale di un film – per le versioni estere pretendeva di incontrare e scegliere di persona i doppiatori, oppure consegnava di persona le pizze contenenti la pellicola – chiese a Saul Bass oltre 300 versioni di poster prima di accettare quella che fu. Alcune, a dirla tutta, erano anche molto più interessanti.
L’odio di Stephen King nei confronti di Shining è uno dei fatti più noti intorno al film. Quello di Kubrick fu il secondo degli innumerevoli adattamenti filmici dai romanzi di King (preceduto solo da Carrie di Brian De Palma nel 1976), adattamenti che King apprezza il più delle volte. Ma di Shining, per il modo in cui Kubrick stravolse il romanzo, non ne ha mai voluto sapere.
Se poi, quasi vent’anni dopo, quello stesso scrittore tenta di rimediare con una miniserie più fedele (alquanto raccapricciante a dirla tutta, ma non nel modo giusto); ma i diritti di adattamento appartengono a Kubrick, e questi li cede a King solo dopo la firma di un contratto che lo obbliga a ritirare tutte le critiche al film; ecco, si può capire l’origine di questo odio. Dopo la morte di Kubrick, King arrivò addirittura ad ammettere una certa soddisfazione nell’essergli sopravvissuto. Insomma, un odio non quantificabile in numeri. Se non per un orario, le tre del mattino. Pare infatti che durante la lavorazione del film, Kubrick avesse l’abitudine di telefonargli a quell’ora, senza preavviso, per porgli delle domande di chiarimento sul romanzo. Le domande erano semplicemente del tono: “Credi in Dio?”, e poi riattaccava. Forse un po’ di quell’odio era giustificato.
Dopo aver letto questi numeri, la domanda sorgerà spontanea: come fa un film in cui ogni 5 minuti di girato richiede magari tre settimane di lavorazione, a rispettare i tempi regolamentari di produzione cinematografica? Semplice, non lo fa. Una prima stima di Variety parlò di 200 giorni di riprese, ma successive dichiarazioni di chi vi prese parte portano la stima a oltre 51 settimane. Vi basti come termine di paragone che un altro connazionale di Kubrick, l’inglese Ridley Scott con cui tanto ebbe a scambiare proprio in merito a Shining, può impiegare per un kolossal di grandi dimensioni anche solo 8 settimane di riprese. Lui è l’estremo opposto, ma è comunque un termine di paragone.
Kubrick sforò ogni limite possibile e accettabile di consegna, ritardò oltremodo i tempi e quindi, per effetto diretto, sforò il budget. Ritardi vennero accumulati nei modi più folli. Per dirne una, Kubrick mise la troupe in pausa per giorni perché era appassionato di scacchi e sul set si presentò un attore che sapeva giocare e in cui trovò “un valido avversario”, e ogni giorno rimandava le riprese di diverse ore per giocare con lui. Quell’attore è Tony Burton e nel film appare per meno di un minuto nei panni di Larry Durkin, colui che affitta lo spazzaneve a Dick Halloran. Alla fine, il film fece talmente ritardo da comportare lo slittamento non solo di Shining, ma di ben altri due film che dovevano girare negli stessi studios dell’Overlook: Reds di Warren Beatty e I predatori dell’arca perduta di Spielberg. Sorprendentemente, il regista di Indiana Jones divenne grande amico di Kubrick e fu considerato da questi suo erede professo, tanto da ereditare il soggetto di A.I. – Intelligenza artificiale.
Come anticipato e per tutte queste ragioni, Shining appare ovviamente in qualunque classifica cinematografica sia stata redatta a memoria d’uomo, nonostante avesse ricevuto critiche generalmente negative al momento dell’uscita. L’American Film Institute, una delle istituzioni di conservazione cinematografica più importanti d’oltreoceano, l’ha inserito in più di una delle sue rinomate TOP 100. Shining appare infatti al 29esimo posto nella AFI’s 100 Years… 100 Thrills dedicata ai film più avvincenti del secolo; Jack Torrance al 25esimo dei più cattivi nella AFI’s 100 Years…100 Heroes and Villains; la frase “Here’s Johnny!” al 68esimo posto fra le citazioni più famose della storia del cinema.
Nella stessa lista di Premiere Magazine (The 100 Greatest Movie Lines) la stessa citazione appare al 36esimo posto, mentre se parliamo del film: è il 75esimo tra i film più grandi di tutti i tempi secondo Sight and Sound; il quinto più grande horror secondo Total Film; rispettivamente il nono e il primo horror più spaventoso secondo le classifiche di Entertainment Weekly e Channel 4. Il noto produttore cinematografico Steven Schneider l’ha inserito fra i 1001 film da vedere prima di morire e 3, soltanto 3, sono i giorni che avrete per farlo in questa fantastica edizione 4K nelle sale il 7-8-9 ottobre.