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Intervista
may december
Todd Haynes: “In May December, è il pubblico a essere sotto i riflettori”

A tu per tu con Todd Haynes per parlare di May December: un film che diffida dei tempi che corrono, ma si fida e affida al pubblico.

Di Carlo Giuliano*

Già dal 21 marzo al cinema, May December nasce da uno scandalo occorso alla fine degli Anni ’90, cui è liberamente ispirato. La protagonista Gracie (Julianne Moore) è sposata – con due figli – con il giovanissimo Joe (Charles Melton). Vent’anni prima la loro relazione li fece finire su tutte le riviste scandalistiche e fece finire Gracie in carcere, ma ora la messa in produzione di un nuovo film sulla vicenda riaccende i riflettori sulla coppia, che si vede insidiata da un nuovo elemento estraneo: Elizabeth (Natalie Portman), l’attrice che dovrà interpretare Gracie su schermo. E per farlo, studiarla passo passo.

È stata proprio Natalie Portman la prima a scovare e proporre a Todd Haynes la sceneggiatura, finita nella nota Black List di Hollywood, la lista delle migliori sceneggiature dell’anno non ancora realizzate. E proprio Todd Haynes ci racconta quanto questo script l’abbia immediatamente rapito e quale sfida rappresentava. Una sfida che coinvolge primariamente il posto occupato dal pubblico nella sua idea di cinema; passando per una società, la nostra, in cui l’indignazione sembra essere diventata il nuovo oppio dei popoli, il nuovo asset su cui monetizzare.

Partiamo dall’inizio, quando Natalie Portman ti ha portato lo script di Samy Burch. Ha confessato che voleva lavorare con te da sempre. Cosa ti ha convinto stavolta?

Era lo script. Come saprai era circolato e aveva generato un grande passaparola nel panorama indipendente americano. Conteneva già in se stesso tanti temi dal potenziale esplosivo e argomenti che ovviamente avrebbero fatto scalpore. Ma l’intelligenza di Samy stava soprattutto nell’aver creato il retroscena, il passato della relazione fra Gracie e Joe. Questo genera un gap interessantissimo, perché la sfida del personaggio di Elizabeth è quella di indagare il passato, per comprendere il presente, per un film a cui lavorerà nel futuro. Tutte queste istantanee temporali sono messe costantemente in relazione, conversano fra loro per tutto il film. E ho pensato fosse un modo davvero brillante di gestire l’argomento.

Qual era la più grande sfida che apriva? 

Sicuramente avere due attrici talentuose che potessero intraprendere la sfida con me, che potessero assumere su se stesse personaggi estremamente complessi come Elizabeth, che ovviamente sarebbe andato a Natalie, e Gracie. Era una sfida interpretativa, ma in definitiva dal punto di vista del tono del film. Questo è ciò che mi interessava più di tutto: trovare il giusto tono cinematografico per May December, che tirasse fuori tutti i suoi diversi, ansiogeni, imprevedibili temi.

Parlando proprio del tono: prima spensierato, lattiginoso; poi pieno di suspense e tensione, come in un thriller. Come hai lavorato, nel pratico, per ottenere un’evoluzione tanto complessa?

È come hai detto, è stato molto più complesso di quanto possa apparire. Ho cercato di arrivare al cuore di tutto attraverso la costruzione visiva del film. Ho pensato molto ai fotogrammi, le inquadrature e a come dovessero rendere l’idea che stessimo catturando i personaggi come fossero animali in gabbia sotto osservazione, che è uno degli altri temi del film. Un mezzo sono le lunghe inquadrature fisse che hai visto nel film, senza alcun movimento. Un altro, quelle in cui gli attori guardano diretti in camera come se stessero guardando il proprio riflesso. Tutto questo porta a una rete di sguardi reciproci: è come se tu stessi studiando i personaggi e loro potessero osservare te mentre li studi. Il risultato è uno stile solo ingannevolmente semplice.

Hai più volte messo l’accento sull’importanza del personaggio di Joe e di quanto l’interpretazione di Charles Melton sia stata preziosa in questo. In che modo?

Questo film cambia genere in ogni atto. Nel primo, quasi un’indagine di investigazione giornalistica da parte di Elizabeth. Ma lei e Gracie sono personaggi forti, dominanti, in ultima analisi disturbanti. E quindi ne nasce un duello pieno di tensione. Ma poi nel terzo atto tutto cambia di nuovo per permettere allo spettatore di provare immedesimazione, un investimento emotivo, di percepire che qualcuno sta effettivamente imparando ed evolvendo da tutta questa storia. Questi sono tutti elementi indispensabili, e chiaramente quel qualcuno è Joe.

Guardando il film ho pensato alla cosiddetta “industria dell’indignazione”, al modo in cui un certo giornalismo e intrattenimento montano scandali sempre più brevi, che generano sempre maggiore accanimento, ma sempre più passivo. Quali sono i rischi a lungo termine sulla nostra società?

Credo abbia fortissime ripercussioni, anche geopolitiche. Quello che stiamo affrontando oggi, nella nostra società, è un’industria che rimette costantemente alla prova i limiti della nostra indignazione, e questa assume sempre più importanza nelle dinamiche politiche. Anche perché non nasce più solo dalle storie che leggiamo sui tabloid, scandali e trasgressioni, che possono anche essere delle pause “piacevoli” per distrarci dal resto. Ma inizia a succedere anche con cose molto più serie. Però è sempre più esagerata ogni giorno che passa…

…ma sempre più passeggera. In che modo May December ci mette in allarme su questo? O prova a contrastarlo?

La premessa che mi entusiasmava, in questa storia, è che attingesse da qualcosa che conosciamo bene, da un terreno noto allo spettatore, in quanto consumatore e quindi anche consumatore di storie. Abbiamo familiarità con questi scandali, ormai ci è sempre e subito ben chiaro cosa dobbiamo aspettarci e presumere, chi sia il buono e chi il cattivo. Quello è il materiale grezzo su cui si basa la relazione tra il pubblico e un film come questo, perché si troverà a dover trattenere le proprie aspettative in attesa di vedere le direzioni intraprese dal film. E potrebbe scoprire che le due cose non vanno sempre in parallelo. Questo lo trovavo eccitante. Soprattutto apprezzo la grande sfida di permettere al pubblico di appassionarsi al processo interpretativo, porsi domande, fare continui passi avanti e indietro nelle proprie opinioni rispetto ai personaggi. Il punto è che il riflettore è tutto sullo spettatore, in questo film.

Uno dei modi attraverso cui hai portato avanti questo dialogo, questo continuo portare a rimettersi in discussione?

La musica! Gioca un ruolo fondamentale in questo, nel modo in cui comunica immediatamente allo spettatore: “Aspetta un attimo, non tutto sarà visibile alla superficie e non tutto sarà come pensi debba essere. Sarà un’esperienza di demolizione delle certezze. E abbiamo fiducia che ti presterai a questo”.

La fiducia che riponi nel pubblico sembra un elemento irrinunciabile.

Non sapevamo che tipo di reazioni avremmo sortito, in quest’epoca segnata dalla cultura dell’indignazione. Il modo in cui il MeToo ci ha insegnato quali storie sia appropriato raccontare e quando invece si stanno superando i limiti. Ma ci siamo resi conto che il pubblico era eccitato e stimolato dalle diverse sfumature presenti nel film. È stata una sorpresa.

Tornando al ruolo dell’indignazione come strumento di distrazione. Pensando a Cattive acque, May December potrebbe suonare come una risposta speculare: “Si fanno film sugli scandali sessuali così la gente non vedrà altri film su scandali molto più importanti”.

Cattive acque e il modo in cui ricalcava molto fedelmente lo scandalo DuPont e il tema dell’inquinamento idrico, nascevano da un sottogenere che ho sempre amato. Parliamo del genere dei “whistleblower” o “gole profonde”, che mettono a rischio la propria incolumità per far venire a galla intrighi di potere di grande portata. Penso a Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula, ma anche altri. La differenza fra quelle vicende e quella di May December è che la storia in questo caso ha implicazioni molto più ridotte a livello di impatto globale. Ma sicuramente con questo film mi sono accorto che il pubblico è sempre più attratto da storie che non abbiano una morale binaria, netta e immediata, fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

Questa tua evoluzione è una risposta alle tendenze di cui parlavamo prima?

Non so dire se fosse così consapevole. Però sicuramente c’è sempre più rigidità in questa tendenza, e questo film invece va nella direzione opposta. Non avrebbe offerto conferme ai pregiudizi morali; l’esatto opposto.

May December è anche un film metacinematografico, con un’attrice chiamata a interpretare a sua volta un’attrice. Sembra essere una volontà sempre più assillante per il cinema recente, riflettere su se stesso.

Stupirà sapere che io considero molti miei film come dei metafilm, nel modo in cui usano i diversi linguaggi e i diversi generi in rapporto alle storie che raccontano. Penso al diverso uso di colori, grane e stili in Io non sono qui, per raccontare le diverse fasi del percorso musicale e umano di Bob Dylan. E molti altri miei film invece, da Safe a Carol, si sono concentrati sulla dimensione delle donne e delle loro vite. Però è vero che questo film mi è risuonato nuovo, perché la metodologia è stata completamente diversa, molto più… interpretativa. E questo come ho detto riguarda il pubblico. È un metafilm nella misura in cui coinvolge lo spettatore nel processo.

Cosa vorrai esplorare nei tuoi progetti futuri? E quali sfide presenteranno?

Auspicabilmente, ogni film offre sempre nuove sfide. E richiede sempre un ritorno al passato, a ciò che è stato fatto prima di te, perché il passato crea aspettative su ciò che stai realizzando nel presente. È sempre stato molto stimolante per me ricordare quanta conoscenza pregressa un pubblico porta in una sala. Quando guardano un tuo film portano con loro tutto ciò che sanno del mondo. E questo si basa su ciò che hanno vissuto ed è il più interessante dei materiali viventi da intercettare e con cui riuscire a conversare. Di questo si tratta. Non dire tutto quello che il pubblico si deve sentir dire, sbattendoglielo in faccia, ma lasciargli dei margini di ignoto e permettergli di farlo interagire con ciò che invece gli è noto, con ciò che conosce. In questo modo, si sentiranno chiamati a un raccoglimento, una stimolazione del pensiero e, non secondariamente, emotiva. Perché ogni film dovrebbe fare sempre entrambe le cose. 

 

 

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.
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