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Il gusto delle cose
Intervista
Trần Anh Hùng racconta Il gusto delle cose

Una conversazione con Trần Anh Hùng, per scoprire com’è nata l’idea de Il gusto delle cose, e come ha realizzato il film premiato a Cannes per la miglior regia.

Di Marco Consoli*

“Qualche tempo fa volevo realizzare un film sull’arte, e mi sono detto perché non farlo sulla cucina? In fondo è un’arte molto concreta di cui si possono osservare tutte le fasi del processo di elaborazione di una ricetta, e che appare sullo schermo in modo molto realistico”. Trần Anh Hùng, 62enne regista vietnamita già vincitore della Camera d’or a Cannes nel 1993 per Il profumo della papaya verde e del Leone d’oro a Venezia per Cyclo nel 1995, descrive così lo spunto che l’ha convinto a realizzare Il gusto delle cose, dal 9 maggio al cinema dopo l’anteprima proprio allo scorso festival di Cannes, dove ha vinto il premio per la miglior regia.

Il film ambientato nella Francia del 1889, e ispirato al libro La vie et la passion de Dodin-Bouffant, gourmet di Marcel Rouff, ruota attorno alla relazione tra il gastronomo Dodin Bouffant (Benoît Magimel), che nella sua cucina va alla ricerca di ricette e piatti da gustare con la compagnia dei suoi amici, con i quali disquisisce naturalmente di cibi e vini, e la sua cuoca Eugénie (Juliette Binoche), che si dedica alla preparazione di arrosti, stufati, dessert insieme a lui e con l’aiuto di Violette (Galatéa Bellugi) e della giovanissima apprendista Pauline (Bonnie Chagneau-Ravoire).

L’uomo e la donna vivono insieme da oltre vent’anni e lei la notte lascia la porta della propria camera da letto aperta perché Dodin possa andare a trovarla, ma da molto tempo rifiuta la proposta di matrimonio del suo amante, che escogita così un piano per farla capitolare. “Quel che mi ha affascinato del libro erano i numerosi passaggi in cui si descrivevano cibi e preparazioni, e partendo da quelle pagine  ho deciso di scrivere una sceneggiatura un po’ libera, per immaginare la relazione tra Eugénie e Dodin”, dice il regista. 

Come mai ha voluto costruire questo rapporto amoroso in cui Eugénie ama definirsi la cuoca di Dodin ma non sua moglie?

Eugénie è una donna indipendente, preferisce avere un lavoro piuttosto che essere solo una moglie. Ecco perché nonostante abbiano una relazione d’amore, lei mantiene questa distanza con Dodin. Ed è proprio a causa di questa distanza che si crea tra loro una tensione che esprime la bellezza della loro relazione. Per me un certo grado di distanza tra le persone, anche in amicizia, è quanto necessario per mantenere un bel rapporto, senza scadere nella volgarità.

Mi può parlare di Dodin?

Il mio personaggio come quello di Rouff è ispirato al gastronomo francese Jean Anthelme Brillat-Savarin (vissuto tra il 1755 e il 1826, ndr.), molto importante perché ha scritto un libro che ha aperto una riflessione nuova sulla cucina e il cibo. Fino alla sua epoca pur essendoci le ricette, non erano particolarmente precise, quanto alle quantità da impiegare, ma talvolta simili a veri e propri componimenti poetici, e Brillat-Savarin iniziò una ricerca approfondita sui piatti della tradizione e del passato per capire come realizzarli nel modo migliore possibile.

Juliette Binoche ha dichiarato che il film mette in risalto come nell’epoca pre-industriale, quando ancora non c’era la produzione di massa, il cibo fosse ancora fatto di ingredienti genuini.

È vero e per me, che mangio prodotti biologici da tanto tempo, era importante mostrarlo. Ecco perché ad esempio si vede come negli orti utilizzassero queste antenne metalliche che servivano a far correre una corrente elettrica nel sottosuolo che favoriva la crescita degli ortaggi. Questi espedienti che nascevano dalla sperimentazione e funzionavano molto bene, sono poi stati abbandonati quando si è passati all’utilizzo dei prodotti chimici, che naturalmente non fanno bene all’ambiente e influiscono negativamente sulla qualità degli stessi cibi.

Il film è zeppo di descrizioni di menù e disquisizioni approfondite su ingredienti e preparazioni. Ad esempio ce n’è una in cui si evidenzia la possibilità di mettere il gelato in forno senza che si sciolga proteggendolo con un rivestimento di bianchi d’uovo montati a neve. Come ha lavorato a questo aspetto della sceneggiatura?

Mentre scrivevo mi sono fatto consigliare da uno storico e poi ho lavorato insieme al rinomato chef Pierre Gagnaire, che è stato consulente del film. Insieme a lui ho trovato dei piatti che avessero specificità utili a mostrare quanto può essere complessa e articolata la preparazione di un piatto, mostrando allo stesso tempo il lato scientifico della cucina, che coinvolge naturalmente la chimica e la fisica. Ho fatto molte ricerche e letto libri sugli chef, anche se il loro mondo è molto lontano dal mio. E poi qui quel che mi interessava veramente era qualcos’altro. 

Cosa?

Mostrare un uomo e una donna insieme al lavoro nella preparazione di queste prelibatezze. 

Juliette Binoche e Benoît Magimel hanno una chimica straordinaria sullo schermo. Forse alcuni spettatori non sanno che hanno avuto una relazione e hanno una figlia, ma non lavoravano insieme da vent’anni. È stato difficile riunirli in scena?

Ero un po’ preoccupato all’inizio di realizzare questa idea. Juliette aveva già accettato il ruolo e quando le ho proposto la cosa, non era molto convinta perché lei e Benoît non si erano lasciati in buoni rapporti. Quando Benoît è arrivato sul set all’inizio c’è stata un po’ di tensione, ma dopo alcuni giorni di difficoltà è emerso un affiatamento straordinario. In qualche modo credo che per loro questo film sia stato un modo per dimostrare alla propria figlia di essere capaci di lavorare insieme e avere un rapporto amichevole. 

I movimenti degli attori e della macchina da presa nelle scene in cucina sono ipnotici. Come ci avete lavorato?

Anzitutto con la mia troupe abbiamo fatto delle prove simulando la preparazione delle ricette che avevamo scelto, per capire quali momenti sarebbe stato interessante inquadrare e predeterminare i vari movimenti dei personaggi. Poi siccome gli attori non avevano molto tempo, quando sono arrivati abbiamo iniziato a girare direttamente con il cibo, visto che sapevamo come muoverci e riprenderli.

Il cibo spesso nei film che si svolgono in cucina sembra vero ma in realtà è finto. In questo caso come è andata?

Il cibo ripreso è tutto vero. Gagnaire ha creato il menù, che aveva ricette più generose e abbondanti rispetto a quelle della cucina odierna, in linea con quel periodo storico. Ma poi avevamo bisogno di uno chef che seguisse le riprese e predisponesse tutti i piatti nelle varie fasi di preparazione e cottura per poter girare con gli attori. Così ci ha raggiunti il suo assistente Michel Nave, che ha lavorato con lui per tanti anni, e ha attrezzato una cucina nei paraggi del set, ed una mobile praticamente vicina alle riprese, in cui lavorare le vivande pochi secondi prima di girare. Il vapore che si vede in scena è vero, perché i piatti e le pentole erano veramente caldi, a volte tirati fuori dal forno vero e messi in quello di scena pochi istanti prima che gli attori li impugnassero. 

A un certo punto del film Dodin, dopo essere stato invitato a gustare un pranzo luculliano del Principe d’Eurasia, decide di rispondere con un invito il cui menù è piuttosto frugale e ha come portata principale il pot-au-feu, un bollito contadino. Da dove nasce questa idea?

Il pot-au-feu è il piatto che mi è stato proposto da Pierre Gagnaire quando sono andato a conoscerlo nel suo ristorante, e dove ho scoperto che ci sono diversi modi di prepararlo. È stato proprio questo a convincermi a inserirlo nel film, dove Dodin sperimenta varie modalità per capire quella più appropriata all’occasione. In qualche modo il suo menù è una metafora per mostrare l’evoluzione della cucina da quella del Novecento, più opulenta, ricca, a una più moderna in cui l’accento è sulla creatività più che sull’abbondanza. Considero questo film un omaggio alla cucina e alla cultura francese, e una sfida per me: ho visto tanti film che hanno al centro la gastronomia e il mio desiderio era realizzare qualcosa di originale e mai visto prima.

Nel film c’è anche l’idea di tramandare l’arte culinaria di generazione in generazione, attraverso la figura della giovanissima apprendista Pauline. Da dove le è venuta l’idea?

In Asia tendiamo a dire che spesso un’arte muore insieme all’artista, perché non c’è l’idea di tramandarla alle generazioni future, come avviene invece in occidente. Per questo ho voluto inserire il personaggio di Pauline e anche perché rappresenta in qualche modo la figlia che Eugénie non è riuscita a dare a Dodin. 

Per concludere posso chiederle qual è il suo rapporto personale col cibo?

Mi piace molto mangiare e sono curioso di assaggiare cose nuove. Per fortuna mia moglie Trần Nữ Yên Khê, che è anche art director del film, è un’ottima cuoca e prepara piatti ispirati a diverse tradizioni culinarie. È talmente brava che riesce a tenere ancora unita la famiglia: i miei figli che hanno ormai 23 e 26 anni e vivono fuori di casa, spesso la chiamano e quando sanno che cucinerà un certo piatto, vengono a trovarci. E così il cibo diventa un modo per stare tutti insieme.

 

* Marco Consoli presenta film e pubblica interviste su Il venerdì di Repubblica, La Stampa, Vanity Fair, D Repubblica e Marie Claire, dopo essere stato per anni una firma di Ciak, Repubblica.it, Gioia, Elle, L’Espresso. Non si occupa solo di cinema, ma anche di tecnologia, scienze, sport, costume e società, con collaborazioni su Wired, Focus e altri magazine e siti. Si occupa anche di comunicazione e PR e ha scritto il libro La guida definitiva a Star Wars.
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