Un percorso cinematografico attraverso opere meravigliose, diversissime, ma tutte inno di grande arte; partendo dal documentario di Wim Wenders dedicato ad Anselm Kiefer.
In quanti e quali modi la grande arte ha fatto irruzione al cinema? Fare un calcolo concreto è forse impossibile e la motivazione è assai ovvia: il cinema è arte e nasce come tale, basti pensare alla prima proiezione fatta per un pubblico pagante dai fratelli Auguste e Louis Lumière, una performance vera e propria, o all’intera opera surrealista di Luis Bunuel… Sul grande schermo da sempre c’è l’arte, nel suo senso più alto e classico ma anche attraverso i suoi tic e le sue negligenze.
Dal 30 Aprile è possibile godere nelle sale cinematografiche di un vero spettacolo d’arte, si tratta della storia, della visione e dello stile di Anselm Kiefer nel documentario Anselm a firma di Wim Wenders. Partendo da questo artista e dal suo lavoro si può immaginare e fare un percorso cinematografico attraverso opere meravigliose, tutte inno di grande arte seppur diversissime tra loro.
Anselm con la sua arte racconta spazi, li illumina. Crea storie e visioni di luoghi inusuali, abbandonati, che trasforma in città, in spazi reali ed evanescenti, e li fa rinascere, dando loro nuova vita, mettendoli nuovamente alla luce. Anselm progetta nuovi modi di abitare, vivere e fare arte proprio come avviene in The square, commedia acida e paradossale di Ruben Östlund che, a colpi di ironia sulle sovrastrutture della nostra società, mette in scena uno spazio in cui tutto può succedere perché, come recita la Abramovic, “l’artista è presente”. E sempre Anselm li capta, interpreta, crea e lo fa su una tela bianca come avviene in Ritratto di una giovane in fiamme, opera con cui Céline Sciamma si è imposta a livello internazionale, in cui la tela prende forma e diventa lo spazio dove l’amore si consuma e realizza.
E ancora… Anselm è evanescente come i paesaggi di Turner, – interpretato da Timothy Spall con la regia di Mike Leigh – che sono eterei e eterni. Eterna e iconografica, pur se dai confini spaziali e tonali più netti, è l’arte di Van Gogh, ancora di più nella ricostruzione animata di Loving Vincent, ma anche quella di Kiefer è intrisa di solitudine e di follia dell’esistenza. Un’esistenza cruenta e piena di fantasmi del reale e di ombre. Ombre che nascono con Caravaggio, la cui arte – raccontata di recente da Michele Placido in un film omonimo – viene dal buio alla luce proprio come noi.
L’arte, tutta, ci ricorda continuamente l’importanza della vita, di “venire alla Luce”, di vivere uno spazio in cui essere liberi, svuotando, riempiendo, raccontando. Proprio come ha fatto la straordinaria Agnes Varda che è scesa per strada, è entrata nei luoghi, li ha osservati, li ha raccontati, filmando storie come fossero quadri in cui vivere, amare, morire, rinascere alla luce dell’arte che è vita. Un esempio per tutti il suo Mur murs, ovvero “i muri mormorano”, documentario del 1981, in cui ha fatto una lunga passeggiata urbana alla scoperta dei murales che adornano e decorano le strade di Los Angeles.
Anselm ingloba tutti questi elementi, vanificando, sfumando i confini tra cinema e pittura, tra storia e arte in un percorso mitologico (da Parsifal a Siegfried) che lo porta a rivivere il proprio passato e quello del suo paese, una Germania e un’Europa devastate. E lui, come ogni artista, propone se stesso e la propria storia con luce, colori, oscurità e follie, le stesse che Wim Wenders cattura, compiendo un ulteriore dipinto. Qui l’artista è presente con le sue ombre e la sua luce, la sua storia, i suoi ricordi, la sua immaginazione, la sua disperazione, la sua speranza, nelle proporzioni gigantesche di tele architettoniche. I luoghi di Kiefer sono così campi di battaglie, ma anche di rinascita, un monito a tornare alla vita, scolpendo l’impossibilità, la cenere, il piombo, la sabbia, il cemento, le piante.
Kiefer crea un albero della vita che si ramifica in luoghi dell’anima, che trasforma in posti da calpestare e su cui riflettere. E Wenders amplifica la sua vita, la sua arte, immergendoci nella sua opera d’arte e di vita, risvegliandoci dal torpore del quotidiano, dipingendoci addosso la sua maestria e il suo tempo che è il tempo dell’eterno ritorno, dell’arte che si fa opera di vita. Non per nulla il cinema da sempre cerca di mettere a fuoco il visibile e l’invisibile, mischiando finzione e realtà.
Il cinema inventa, descrive, interpreta, distorce, immagina e per farlo usa l’arte, diventa, è arte. “Settima arte”, appunto, così definita da Ricciotto Canudo e non solo perché viene “dopo” poesia, pittura, scultura, musica, danza, architettura, ma perché, attraverso i suoi racconti visivi in movimento, le abbraccia, le contiene tutte, le trasforma, le plasma, le proietta su una tela bianca che si colora, si anima, diventando un’opera d’arte.