Mentre Un colpo di fortuna di Woody Allen è in sala, abbiamo intervistato l’autore della cinematografia, ripercorrendo la sua vita, la sua carriera e la sua lunga collaborazione con il regista newyorkese.
A un certo punto, Vittorio Storaro si ferma e dice: «Prima di poter essere un maestro, come qualcuno mi chiama oggi, bisogna essere studenti. E io sono ancora uno studente». Inizialmente parla piano, per sottolineare determinati passaggi, e poi va più veloce. Non corre, no, ma è come se non volesse farsi sfuggire ciò che intende esprimere: quell’idea o quel concetto che sono proprio lì, davanti a lui, a portata di mano.
Dal 6 dicembre, Coup de Chance (in italiano tradotto come Un colpo di fortuna, ndr) di Woody Allen è al cinema con Lucky Red. E di questo film Storaro ha curato la cinematografia. Per raccontare la sua esperienza, comincia da lontano. Pesca tra i ricordi, le sensazioni, le cose viste e passate. Descrive la luce e l’ombra come due genitori, i colori come i loro figli e la cinematografia come un’arte precisa, frutto di studio e consapevolezza. Frutto, soprattutto, di vita. Torna indietro nel tempo, agli anni del Centro sperimentale e dell’accademia di fotografia. E poi va avanti, di colpo. È un centometrista della parola che però sa tenere anche i ritmi della maratona.
Quando lo sentiamo, è sabato mattina; Storaro è a casa con la sua famiglia. Ho fatto ritardo, dice, perché stavo finendo di preparare il presepe per i miei nipoti. Ora però fermi, calma; si parte. Luce, motore, azione. «Nel 2012 ho finito un film in Iran sulla storia di Maometto bambino. Avevo accettato di lavorarci solo dopo aver ricevuto la rassicurazione da parte dei produttori e del regista che avremmo provato a riavvicinare le religioni. Dopo due anni, sono tornato a Roma. E ne ho approfittato per riposarmi. Ne avevo bisogno. Dovevo recuperare le forze e liberare, diciamo così, la mia mente. A quel punto, mi ha chiamato il mio agente americano, dicendomi che Woody Allen mi voleva coinvolgere nel suo nuovo progetto».
Vi conoscevate già?
«Ci eravamo incontrati anni prima, durante le riprese di Ho solo fatto a pezzi mia moglie di Alfonso Arau. Lui faceva l’attore, in quel caso. Ricordo che gli piaceva molto il suo personaggio. Non abbiamo parlato molto in quell’occasione. Woody Allen è una persona estremamente privata e introversa. Ma c’è stato un buon contatto. Lui recitava, ripeto, e io facevo la cinematografia – che non è una parolaccia, giuro; molti non vogliono dirla e non so perché».
Che cosa ha risposto al suo agente?
«Che mi interessava, che volevo parlargli. Però, ho premesso, dovevo sapere che tipo di film aveva intenzione di fare. Perché per me è importante. Alcuni film mi piacciono di più, altri, per i loro temi, non credo che siano adatti per me».
In che senso?
«Quello che facciamo è ciò che siamo, ciò che ci rappresenta; ciò che, alla fine, rimane. Mettiamo tutto noi stessi nel nostro lavoro. E quindi, se non c’è un argomento capace di parlarmi, io dico di no: ringrazio e vado avanti».
Per esempio, quali film ha rifiutato?
«Quelli violenti. Io non ho fatto Kill Bill con Quentin Tarantino, per dirle. La sceneggiatura che mi aveva mandato era stupenda, non dico il contrario. Ma per me, per la persona che sono, era troppo radicata nella vendetta, che è un tema che io non amo. E così ho fatto anche altre volte».
Torniamo a Woody Allen e alla sua proposta.
«Ho chiesto, come le dicevo, di avere il copione per farmi una mia idea. E in più ho precisato che, per poter far parte del progetto, dovevo a mia volta trovare un’idea figurativa da portare sul set. Perché io non voglio limitarmi a buttare qualche lampadina su un soffitto bianco e a dare motore. Ho bisogno di una visione».
E a quel punto che cosa ha fatto Allen?
«È stato molto carino. Mi ha mandato la sceneggiatura – parliamo chiaramente del primo film che abbiamo fatto insieme, Café Society – e mi ha scritto un piccolo messaggio».
Che cosa diceva?
«Don’t worry, Vittorio, if you aren’t in the mood. We’re young enough, we’ll have another go later on. (Non ti preoccupare, Vittorio, se non ti va. Siamo abbastanza giovani, avremo un’altra possibilità più avanti, ndt). Ho letto il copione e ho capito che c’era la possibilità di trovare una certa dualità, un aspetto che per me è fondamentale».
Perché?
«Perché la mia vita è divisa, come la vita di tutti, tra luce e ombra. E nella luce che cosa c’è? Ci sono i colori. Che, come li ha definiti Leonardo Da Vinci, sono i figli del matrimonio tra luce e ombra. Se non ho la possibilità di poter mettere in armonia o, occasionalmente, in conflitto la luce, l’ombra e i colori, non sento di potermi esprimere. Se vede i film che ho fatto, e parlo delle collaborazioni con Bertolucci, Coppola, Beatty, Carlos Saura e Woody Allen, può riconoscere un linguaggio preciso. Quello della luce, appunto. Che ha una sua proprietà e una sua importanza nell’esprimersi. Una cosa molto simile, se mi permette, allo stile e alla voce di uno scrittore o di un compositore musicale».
Immagino sia fondamentale, poi, presentare questa visione al regista.
«Assolutamente. Il cinema è come un’orchestra, e l’unico direttore è il regista. Per questo, per me, è sbagliato dire direttore della fotografia».
In che cosa consisteva, nello specifico, questa sua visione?
«Ho cercato pitture e fotografie della New York del 1935 e ho provato a metterle in relazione con la famiglia protagonista. Poi, quando c’è il viaggio verso Hollywood, ho provato a mettere in risalto la differenza di toni e colori. Insomma, ho preparato una specie di portfolio per andare da Woody Allen e potergli dare tutti gli elementi necessari per prendere una decisione. Onestamente, detto tra me e lei, se non avesse accettato, io mi sarei fatto immediatamente da parte».
Alla fine, però, Allen ha accettato.
«È stato semplicemente entusiasta. È proprio quello che ho scritto, mi ha detto. E per me non c’è complimento più bello: riuscire a rendere in immagini quello che qualcun altro ha creato. Sono stato felicissimo, mi creda. E sempre in quell’occasione, gli ho chiesto se voleva passare al digitale. Mi spiegò che a New York non c’erano più i laboratori per lavorare sulla pellicola. Ed è esattamente ciò che è successo, negli ultimi anni, in Italia. Io non ho più con quelli che chiamavo il padre e la madre, la Technicolor e la Kodak. In un certo senso, se vuole, siamo orfani. Io avevo già sperimentato il digitale. E così, con Woody Allen, ci siamo imbarcati in questo viaggio».
E questo era Café Society.
«Sì, siamo andati veramente d’accordo. E poco dopo la première, Woody Allen mi ha dato la sceneggiatura per Wonder Wheel. Io lì ho avuto un problema, non glielo nascondo. Perché leggevo pagine intere di scene ambientate in spazi piccoli e ristretti, e non sapevo come fare per avere nuove idee. E lui, sempre straordinario, mi ha invitato a New York per fare i sopralluoghi a Coney Island. Ed è stato stupendo, perché ho capito che i protagonisti vivevano nel parco divertimenti e il parco divertimenti era la loro vita. Abbiamo fatto, secondo me, un film pazzesco. Molto diverso rispetto alle altre opere di Woody Allen».
Diverso in cosa?
«Woody Allen non voleva passare ai colori, all’inizio. È stato costretto dai distributori e produttori, che non volevano dare un’idea vecchia di cinema al pubblico. Ma Woody Allen ha sempre chiesto ai suoi collaboratori di avere dei toni leggeri, quasi sfumati, per rimanere in uno spazio visivo quanto più familiare possibile. In Wonder Wheel non è così. Ci sono delle esplosioni di colori incredibili. Abbiamo osato, anche rispetto alla storia».
Sempre in America avete girato A rainy day in New York.
«Un altro bellissimo film, sì. Proprio mentre stavamo girando, è arrivato il movimento del Me too. E per carità: è stato un movimento fondamentale. Personaggi come Harvey Weinstein avevano sbagliato e dovevano, ripeto: dovevano, pagare. Ma non Woody Allen. In quel periodo, uscì un articolo in cui si chiedeva di boicottarlo. E sempre in quel periodo, Amazon decise di fermarne la distribuzione, commettendo, secondo me, un errore enorme. Sono stato contattato da alcuni giornalisti. E io capii immediatamente dove volevano arrivare. Anche Bernardo Bertolucci era stato criticato; noi stavamo lavorando al restauro di Ultimo tango a Parigi, che sarebbe dovuto andare a Cannes».
Lei che cosa rispose?
«Che se pensiamo che ciò che vediamo sul grande schermo sia la realtà facciamo il più grande errore della nostra vita. Perché le scene sono scritte in sceneggiatura, e quella scena di Ultimo tango a Parigi era prevista. L’abbiamo fatta una volta sola. E io, su indicazioni di Bertolucci, mi sono occupato del primo piano di Maria (Schneider, ndr). E le posso assicurare che la scena che abbiamo ripreso era la scena di un film. Non era vera. Bisogna informarsi, bisogna sapere di che cosa si sta parlando. Bertolucci, alla fine, chiese di non andare a Cannes, perché non se la sentiva, stava male; la versione restaurata di Ultimo tango a Parigi venne presentata al Festival di Bari».
Con Allen, poi, che cosa è successo?
«Sapeva di non poter più avere accesso alle stesse risorse e di non poter coinvolgere gli attori americani. Così siamo andati in Spagna con il quarto film, Rifkin’s Festival. L’Europa ha sempre capito Woody Allen e quella che è la sua arte. Non è mai stato condannato, Woody. Mai. Per questo prima le dicevo che è fondamentale informarsi. La nostra collaborazione è andata avanti. Io non sono convinto che le cose si possano aggiustare, come dicono in America, in post-produzione; è importante arrivare alla forma che si ha in mente mentre si gira, mentre si è sul set».
Dopo la Spagna, arriviamo, finalmente, alla Francia con Coup de Chance.
«Woody Allen è stato contattato da un produttore francese che gli ha chiesto di girare un film lì, in lingua francese. E lui ha accettato. Quando mi ha mandato il copione, me l’ha mandato in francese. A Parigi sono andato con una parte della mia troupe e lui è venuto solo con la sua produttrice esecutiva, se non sbaglio. E abbiamo fatto un film meraviglioso, con attori straordinari».
Per lei che esperienza è stata?
«Mi sono trovato decisamente più a mio agio, visto che a Parigi avevo già lavorato. Non voglio dirle che è stato come tornare a casa, però è stato indubbiamente più facile ambientarmi e trovare il mio spazio. Quando abbiamo finito le riprese, Woody Allen è tornato a New York e ha fatto lì il montaggio, aggiungendo anche la musica».
Che cosa aveva proposto, in questo caso, a Woody Allen?
«La storia, come sa, è incentrata su questa ragazza divisa tra il suo presente e il suo passato, tra l’uomo ricchissimo con cui vive e un vecchio amico che rincontra. E lei capisce che quando sta con questo suo amico si sente come era prima. Più semplice, più sé stessa, più naturale. Per me, quindi, era importante riuscire a rendere questi due momenti, utilizzando nel primo caso colori più freddi e nel secondo colori più caldi e avvolgenti».
È stato difficile?
«In una delle location che avevamo scelto, un appartamento stupendo, le pareti erano tutte bianche. Potevamo dipingerle, certo, e poi, una volta finito, riportarle al loro colore originale. Ma ho preferito un’altra soluzione: utilizzare la luce artificiale. E così questo bianco si è tinto di azzurro. E l’azzurro, sa, è un colore molto interessante».
Perché?
«Perché rappresenta una volontà chiara, rappresenta l’intelletto».
Lei dipinge?
«Purtroppo no. Da ragazzo, quando andavo a scuola, ero bravo nel disegno tecnico, ma non nel disegno artistico».
Eppure mi pare che la pittura sia un riferimento molto importante nel suo lavoro.
«Io ho studiato sia fotografia che cinematografia, e in quel periodo, purtroppo, non ho mai sentito parlare di colori. Mai, glielo ripeto. All’epoca c’era come un timore nei confronti del colore».
Addirittura.
«C’era la paura di non riuscire a registrare l’ombra. Se ci pensa, i film di quel periodo, degli anni Sessanta, sono tutti piatti. Non hanno una vera profondità. E non c’era un dialogo tra luce e ombra. Io ho cominciato a lavorare sui colori con Il conformista di Bernardo Bertolucci. Usammo la luce e l’ombra, con queste strisce che avvolgevano le figure, per dare spessore e un’identità ai personaggi. Quando abbiamo lavorato a Strategia del ragno e Novecento, ho conosciuto la pittura primitiva».
Il suo esordio, però, è stato Giovinezza giovinezza, un film in bianco e nero.
«E per fortuna. Perché non sapevo ancora niente dei colori. In quel caso, provai a trovare un rapporto tra la luce naturale e il buio. Ma già in quell’occasione capii che avevo bisogno di qualcosa di più».
Dei colori?
«Dei colori, sì. Pensi che io, in un primo momento, rifiutai Apocalypse Now. Lo dissi a Francis Ford Coppola: io non c’entro niente con la guerra. Eppure, parlando con lui, scoprii che il vero tema del film era un altro. Leggi Cuore di tenebra di Joseph Conrad, mi consigliò; Apocalypse Now è un film sul senso delle civilizzazioni. Mi mandò anche il copione tradotto per farmelo leggere. E mi invitò in Australia per i sopralluoghi. Straordinario: mi stava già dirigendo al telefono. Quando poi ho letto Cuore di tenebra, ho capito».
Che cosa?
«Ogni civiltà che si sovrappone a un’altra, che prova ad appropriarsi del suo spazio e della sua cultura, commette un crimine. Io ho messo la luce artificiale, quella dei proiettori, dei fumi colorati, sulla luce naturale, finendo quasi per schiacciarla. Quindi, le ripeto, io ho cominciato dai primitivi».
E si è poi allargato ad altri pittori?
«Sì, certo. Quando sono andato in questa piccola chiesa che si trova a Roma, che si chiama San Luigi dei Francesi, ho scoperto Caravaggio. Ricordo che ero con mia moglie la prima volta che ci sono entrato; sono rimasto incantato da ogni cosa che vedevo. Ero senza parole, come Paolo sulla via per Damasco».
Le piace visitare le chiese?
«Le trovo incredibilmente ricche. Ti dicono molto del posto in cui ti trovi, specialmente quelle italiane. Una chiesa non è solo architettura: è anche pittura, scultura e, quando sei abbastanza fortunato e trovi qualcuno all’organo che sta provando, musica».
Che cosa l’ha colpita, in particolare, di Caravaggio?
«La vocazione di San Matteo. Nessuno, durante i miei anni di studio, me ne aveva parlato. In quel dipinto c’è tutto: c’è un taglio netto tra luce e ombra, e i personaggi vengono messi magnificamente in risalto con i loro contrasti e le loro espressioni. Caravaggio è stato in grado di andare oltre e di dipingere, letteralmente, il viaggio che compie la luce nell’oscurità. Ha raccontato la storia della nostra vita: passato e presente, inconscio e subconscio».
Che cos’è importante, allora?
«Continuare a studiare. Non fermarsi. Non basta aver studiato, come avevo fatto io, fotografia e cinematografia. Serve conoscere e approfondire le arti. Serve leggere più libri, ascoltare più musica e guardare più pittura. Ho cominciato a scattare e a informarmi sulla filosofia dei colori. E piano piano, ho messo insieme queste conoscenze e ho scritto dei manuali, dei saggi. Il primo, Scrivere con la luce, era dedicato – come suggerisce il titolo – alla luce. Il secondo ai colori. Il terzo agli elementi. Il quarto alle muse. Il quinto, che dovrebbe uscire prossimamente, ai maestri della luce. E il sesto, su cui sto lavorando adesso, che dovrebbe chiudere questa collana, sui profeti della luce».
Quando era bambino, suo padre portò a casa un proiettore, dipinse di bianco il muro sul retro del suo giardino e vi fece vedere un film di Charlie Chaplin. Che cosa ricorda di quel momento? Che luce c’era?
«Io avevo 6 anni, mio fratello 7. E per me fu una magia. Per me, in quel momento, il cinema era Charlie Chaplin».
A 16 anni, ha detto, ha ricevuto il più bel no della sua vita. Che significa?
«Avevo finito i miei studi in fotografia e mio padre aveva chiesto all’ingegner Portalupi della Lux Film di darmi una possibilità per lavorare nel cinema. L’ingegnere gli disse di no, e gli consigliò di mandarmi al Centro sperimentale per studiare cinematografia: noi, qui, non facciamo fotografia; facciamo fotografia cinematografica, spiegò. Non ci fosse stato quel no, non avrei avuto la possibilità di imparare le cose che so oggi».