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Xavier Dolan racconta l’umana difficoltà di sopravvivere ai conflitti

Con Matthias & Maxime Xavier Dolan è tornato ai suoi temi più cari, per stupire ancora una volta gli spettatori con il suo sguardo sempre originale. Ripercorriamo la carriera del talentuoso cineasta canadese in questo approfondimento a cura di Filmpost.it.

A cura di Filmpost.it

Regista, sceneggiatore, attore, montatore, costumista, produttore cinematografico, scenografo e doppiatore. Ma soprattutto un ragazzo, che a soli trent’anni sa dare forma condivisibile al proprio sguardo, largo e profondo, sulle relazioni e i conflitti. Xavier Dolan è tutte queste cose a un’età alla quale, di solito, si hanno idee confuse, e si va in cerca di qualcuno che metta ordine nel caos.

E invece lui, regista canadese giunto al suo ottavo lungometraggio, il proprio caos lo mette davanti alla macchina da presa, e attende fiducioso che sia l’occhio dello spettatore a fare ordine. Dolan non vuole essere considerato un enfant prodige, e forse neppure un genio. A sedici anni è fiducioso che la propria, ancora breve, storia sia già sufficientemente densa da gettare un ponte verso un pubblico di sconosciuti. Quello stesso pubblico che lo consacrerà uno dei migliori registi della sua generazione.

La mia storia, la mia voce

Nel 2009 nasce J’ai tué ma mère – primo film del regista – di cui un Dolan ancora ventenne è anche sceneggiatore, produttore e attore protagonista. Questo giovane artista canadese inizia così a parlare di sé stesso – il film è parzialmente autobiografico – e insieme di un destino che lui percepisce comune a molti; mette in scena temi quali la ricerca dell’identità, le repressioni inflitte dalla famiglia, i conflitti generazionali e l’irrealizzabile coesistenza tra amore e libertà.

Al momento, invece, Dolan è fuori con il suo ultimo film Matthias e Maxime (di cui trovate la recensione su FilmPost.it), nel quale un bacio simulato è la scossa per modificare una vita insoddisfacente. Fin dagli inizi della propria carriera, Dolan ritrae personaggi, giovani e meno giovani, mentre questi sono intenti ad annaspare. Nel farlo, avvicina più possibile la macchina al volto dei protagonisti, per leggere i loro stati d’animo senza che l’aria che passa in mezzo renda tutto sfocato.

Le catene dell’amore

Il regista canadese ha raccontato vite osteggiate da fantasmi invadenti, con cui talvolta si prova a convivere; fantasmi che diventano nemici da abbattere, ma che talvolta compiono il percorso opposto, diventando risorse per gettare lo sguardo oltre sé stessi. Talvolta infatti, per i protagonisti dei film di Dolan, continuare a guardare sé stessi è troppo doloroso, e per rimediare al senso di inadeguatezza e alla percezione della propria diversità si punta lo sguardo altrove.

Un altrove che, spesso, si incarna in affetti così forti da somigliare a prigioni. Dolan mette in scena, da un lato, individui che sbattono contro l’amore degli altri mentre cercano sé stessi, e dall’altro individui che inciampano in sé stessi mentre cercano l’amore degli altri. Dolan traccia spirali in cui vincoli e libertà si inseguono senza riuscire ad afferrarsi, senza coesistere equilibratamente nel qui e ora; al contempo fissa frammenti di realtà morbose, ansiogene, claustrofobiche, in cui il dolore implode per non essere stigmatizzato.

Non esiste storia senza conflitto

Sono un po’ dei film corali quelli di Xavier Dolan. Una coralità in potenza, che si fa in atto quando i personaggi – protagonisti e coprotagonisti – soffrono senza dire una parola, rendendo testimoni del loro dolore tutti gli spettatori. Una coralità che somiglia all’isolamento, al ripiegamento di coloro che si percepiscono diversi; individui che, davanti all’occhio degli spettatori, allacciano il loro patire a quello degli altri personaggi dello stesso film, ma idealmente anche a quello dei protagonisti delle pellicole precedenti.

Tutti uniti nella difficile ricerca dell’identità, tutti ostacolati da familiari e amici che amano violentemente o troppo flebilmente, ma quasi sempre con egoismo. Gli otto lungometraggi di Dolan, da Mommy e Laurence Anyways fino al più recente La mia vita con John F. Donovan, sono legati da un sottile ma persistente filo: l’incapacità dell’uomo di sopravvivere al conflitto senza esserne annientato.

 

In merito ad arte, cinema e letteratura si usa dire che “non esiste storia senza conflitto”. È pur vero però che non esiste vita senza conflitto, e che di conseguenza qualsiasi forma d’arte – in quanto mimesis della realtà – è portatrice di una battaglia. Ma se alcuni registi, scrittori e sceneggiatori usano l’arte per dare un ordine alle cose, Dolan si allontana parecchio da questo proposito: il suo intento è sfidare lo spettatore, raccontandogli un caos che non diventa mai cosmo. Almeno non sullo schermo.

I personaggi di Dolan trovano sé stessi per poi perdersi il minuto dopo, e inseguono la propria identità senza riuscire a mantenerla. Un’identità alterata dallo scorrere del tempo – e dalle esperienze che questo porta con sé – e che per questa ragione non si lascia afferrare. Un’identità messa a tacere per essere accettati, che torna a farsi sentire attraverso sensazioni e pulsioni sessuali. Talvolta anche attraverso le dipendenze.

Odi et amo

Sopraffatti dall’incapacità di amare liberamente, e dalla paura di essere rifiutati, gli individui di Dolan sviluppano ossessioni e dipendenze. Dipendenze affettive, che si trasformano in legami morbosi e lesivi dell’incolumità altrui e propria; ma anche dipendenze da alcol e stupefacenti, come accade in Matthias e Maxime, in cui la madre di uno dei protagonisti, sola ed emotivamente debole, è alcolizzata e fa uso di sostanze psicotrope.

In Mommy, invece, il dolore assume la forma di comportamenti violenti e disturbi della personalità, di rapporti viscerali e insieme nocivi: è il caso di Steve e Diane “Die”, un figlio e una madre incapaci di darsi supporto reciproco, eppure avvinti da un legame fittissimo. Un legame fatto di tenerezza e rabbia e in parti uguali, come accade anche nel film J’ai tué ma mère.

La vergogna e l’incapacità di accettarsi – e farsi accettare – sono sviscerate in film come Tom a la ferme e Laurence Anyways: qui i personaggi talvolta si nascondono, talvolta provano a rivelarsi con fatica; provano a entrare in connessione tra loro, ad andare oltre il giudizio altrui, ma non di rado sviluppano risentimento e livore. Talvolta invece si chiudono in sé stessi, anestetizzano il proprio sentire per sopravvivere. L’incomunicabilità tra giovani e adulti è schizzata efficacemente in Matthias e Maxime, mentre È solo la fine del mondo ritrae i sentimenti virulenti che si annidano in tutte le famiglie.

Ad ogni storia la sua colonna sonora

Un aspetto che corrobora la potenza della filmografia di Xavier Dolan è l’accurata scelta dei brani. Ogni film di questo regista vanta una colonna sonora sapientemente calibrata, che accompagna i silenzi dei personaggi, donando loro forza e significato. Basti pensare alla ricchissima colonna sonora di Mommy, forse il film del regista che ha avuto maggiore successo di pubblico e critica.

Da Building A Mystery di Sarah McLachlan a White Flag di Dido, da On Ne Change Pas di Celine Dion a Experience di Ludovico Einaudi. Da Wonderwall degli Oasis a Born To Die di Lana del Rey, passando per Blue degli Eiffel 65: brani che non hanno alcun denominatore comune, se non quello di accrescere il potenziale di un capolavoro della cinematografia.

Xavier Dolan ha poco più di trent’anni, e il suo primo decennio di carriera sembra essere un ottimo augurio per gli anni che verranno. Al momento, chi ama i film di questo giovane regista potrà godere della visione della sua ultima pellicola, Matthias e Maxime, oppure recuperarne le sue più celebri pellicole del passato, sulla piattaforma Miocinema.

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